Repubblica 24.9.16
L’insostenibile ambiguità nelle parole della politica
Giustizia e democrazia in un mondo diviso fra potenti e impotenti
di Gustavo Zagrebelsky
Quello
che qui pubblichiamo è un estratto dell’intervento dell’autore al
Festival del diritto, organizzato e diretto da Stefano Rodotà e in
programma fino a domani a Piacenza Quest’anno il tema su cui studiosi di
varie discipline si stanno confrontando è quello della dignità Per
informazioni www.festivaldeldiritto.it
C’È UNA piccola
frase, apparentemente alquanto banale, in La sera del dì di festa di
Giacomo Leopardi che dice «tutto al mondo passa e quasi orma non
lascia». Desidero richiamare l’attenzione su quel “quasi”. Certo, la
vita e le nostre opere sono effimere, ma non del tutto. C’è un residuo,
il “quasi”, che resta, che si accumula e che forma ciò che chiamiamo
umanità, un termine che può tradursi in cultura: il deposito delle
esperienze che vengono da lontano e preparano il futuro, un deposito al
quale tutti noi, in misura più o meno grande, partecipiamo. O, meglio:
dobbiamo poter partecipare. Altrimenti, siamo fuori della umanità. Per
questo, troviamo qui il primo, il primordiale diritto, che condiziona
tutti gli altri. La violazione di questo diritto equivale
all’annientamento del valore della persona, alla sua riduzione a zero, a
insignificanza.
Eppure, viviamo in un mondo nel quale non è
nemmeno possibile stabilire con precisione quanti sono gli esseri umani
che non conoscono questo elementare diritto che possiamo chiamare
“diritto al segno” o, leopardianamente, “diritto all’orma”.Si misurano a
milioni, cioè a numeri approssimativi, senza che — ovviamente — a
questi numeri possano associarsi nomi. Milioni di anonimi, che giungono a
noi come fantasmi, mentre le loro sono esistenze concrete, anche se
durano spesso lo spazio d’un mattino o di pochi mattini, consumandosi in
fretta in condizioni disumane, in luoghi dove la lotta per la mera
sopravvivenza
materiale sopravanza qualunque possibilità di
relazioni, dove i neonati vengono al mondo sotto la maledizione di leggi
statistiche che li condannano alla sparizione entro pochi giorni o
settimane di vita.
Ciò che ci interpella inderogabilmente è che
non possiamo dire, come forse si sarebbe potuto un tempo, nel mondo
diviso per aree, storie, politiche separate e indipendenti le une dalle
altre: sono fatti loro, loro è la responsabilità, il nostro mondo non è
il loro, ognuno pensi per sé alle proprie tragedie. Non possiamo dirlo,
perché il mondo, come ci ripetiamo tutti i momenti, è diventato uno
solo, grande, globale. Noi, in un tale mondo, osiamo parlare
kantianamente, senza arrossire, di “dignità” come universale diritto al
rispetto. Il “diritto all’orma” detto sopra è legato a tutti gli altri
diritti come loro premessa e condizione: è davvero quello che è stato
definito da Hannah Arendt, con una formula che ha avuto successo
(Rodotà), il “diritto di avere diritti”.
C’è un diritto che
potremmo dire essere un altro modo d’indicare il diritto di avere
diritti, ed è il diritto al nome: un diritto al quale i trattati di
diritto costituzionale, se non l’ignorano, dedicano poche righe. La
nostra Costituzione, all’art. 22, tra i diritti umani fondamentali
stabilisce che nessuno può essere privato del suo nome perché i
Costituenti sapevano il valore di quel che dicevano. “Nominando” si
specifica, si riconosce, si creano le premesse per creare un rapporto.
Questo
non accade, oggi, alle centinaia di migliaia e, in prospettiva, dei
milioni di migranti che sono, per noi, milioni non solo di senza nome,
ma anche di senza terra. «Quel che è senza precedenti — scriveva Arendt
con riguardo alla tragedia del suo popolo negli anni ’30 e ’40 del
Novecento — non è la perdita della patria, ma l’impossibilità di
trovarne una nuova». Tale impossibilità, allora, era determinata dalle
politiche razziali e colpiva comunità umane determinate. Oggi, deriva
dalla condizione generale del mondo saturo globalizzato.
Questa
situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. I
diritti umani sono una realtà per chi sta sopra, e il contrario per chi
sta sotto. Lo stesso, per la dignità. Per chi sta sopra, le
rivendicazioni di chi sta sotto e chiede di emergere all’onor del mondo
sono attentati allo standard di vita “dignitoso” di chi sta sopra.
Quando si chiede lo sgombero dei migranti che intasano le stazioni,
dormono nei parchi pubblici e puzzano, non si dice forse che danno uno
spettacolo non dignitoso? Ma, dignità secondo chi? Non secondo i
migranti, che della dignità non sanno che farsene, ma secondo noi che da
lontano li guardiamo.
Ci sono parole, dunque, che non valgono
nello stesso modo per i divites e gli inanes. Si dovrebbe procedere da
questa constatazione per un onesto discorso realistico e riconoscere che
le parole che hanno valore politico non sono neutre. Servono, non
significano; sono strumenti e il loro significato cambia a seconda del
punto di vista di chi le usa; a seconda, cioè, che siano pronunciate da
chi sta (o si mette) in basso o da chi sta (o si mette) in alto nella
piramide sociale. Occorre, perciò, diffidare delle parole e dei concetti
politici astratti. Assunti come assoluti e universali, producono
coscienze false e ingenue, se non anche insincere e corrotte.
Potremmo
esemplificare questa legge del discorso politico parlando di
democrazia, governo, “governabilità”, libertà, uguaglianza,
integrazione, ecc. e di diritti e dignità. Si prenda “democrazia”: per
coloro che stanno sopra e hanno vinto una competizione elettorale,
significa autorizzazione a fare quello che vogliono; per coloro che
stanno sotto e sono stati vinti, significa pretesa di rispetto e di
riconoscimento: fare e non fare; prepotenza e resistenza. Oppure
“politica”: forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come
quando la si usa in espressioni come “politica di espansione”, “politica
coloniale”, “politica razziale”, “politica demografica”; oppure,
esperienza di convivenza, coinvolgimento e inclusione sociale. Oppure
ancora: la (ricerca della) “felicità”.
Oggi, sono i potenti che
rivendicano la propria felicità come diritto, la praticano e la
esibiscono come stile di vita, quasi sempre osceno e offensivo. Ma non
sentiremo un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un
genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante
senza dimora, un individuo oppresso dai debiti e strangolato dagli
strozzini, uno sfrattato che non ha pietra su cui posare il ca- po, una
madre che vede il suo bambino senza nome morire di fame: non li
sentiremmo rivendicare un loro diritto alla “felicità”. Sarebbe
grottesco. Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei
sofferenti chiedere non felicità ma giustizia.
Ma, anche la parola
giustizia non sfugge alla legge dell’ambiguità. Giustizia rispetto a
che cosa? Ai bisogni minimi vitali, come chiederebbero i senza nome e i
senza terra; oppure ai meriti, come sostengono i vincenti nella partita
della vita? La giustizia degli uni è ingiustizia per gli altri. Si
comprende, allora, una verità tanto banale quanto ignorata, nei discorsi
politici e dei politici: se si trascura il punto di vista dal quale si
guardano i problemi di cui ci siamo occupati e si parla genericamente di
libertà, diritti, dignità, uguaglianza, giustizia, ecc., si pronunciano
parole vuote che producono false coscienze, finiscono per abbellire le
pretese dei più forti e vanificano il significato che avrebbero sulla
bocca dei più deboli.
Onde, la conclusione potrebbe essere questa:
queste belle parole non si prestano a diventare stendardi che
mobilitano le coscienze in un moto e in una lotta comuni contro i mali
del mondo, per la semplice ragione che ciò che è male per gli uni è bene
per gli altri. La vera questione è la divisione tra potenti e
impotenti. Tanto più le distanze diminuissero, tanto più l’ambiguità
delle parole che usiamo diminuirebbe. Ma, è chiaro, qui il discorso deve
finire, perché si deve uscire all’aperto, dove non bastano le parole ma
occorrono le azioni.