Repubblica 22.9.16
Aleppo
Parla Hamza, uno dei 25 dottori rimasti
“Contro noi medici una guerra parallela ma queste stragi non ci fermeranno”
intervista di Francesca Caferri
ALEPPO
CINQUE paramedici colpiti da una bomba nel nord della Siria martedì
sera sono le ultime vittime della guerra dentro la guerra che sta
insanguinando la Siria. Obiettivo di questo conflitto sono i dottori,
gli infermieri e gli ausiliari. Fare un calcolo di quanti ne siano morti
in 5 anni di conflitto è impossibile, ma secondo le organizzazioni
umanitarie 265 strutture mediche sono state colpite dall’inizio della
guerra: una ogni 17 ore nel mese di agosto, quello in cui gli attacchi
sono stati più intensi. Ieri un gruppo di 100 organizzazioni non
governative di tutto il mondo hanno chiesto lo stop agli attacchi su
medici e umanitari.
Fra gli obiettivi delle bombe c’è l’ospedale
in cui lavora il dottor Hamza (un nickname con cui accetta di parlare),
nella parte orientale di Aleppo, sotto il controllo dei ribelli: per
ragioni di sicurezza il nome dell’ospedale, così come il vero nome del
dottore, saranno omessi in questo articolo. Basterà sapere che il dottor
Hamza è uno dei 25 medici rimasti in città per curare una popolazione
di 300mila persone.
Dottor Hamza, perché i medici in Siria sono un obiettivo?
«Questo
dovrebbe chiederlo a Bashar al Assad, che è medico anche lui. Io posso
dirle che prendere di mira gli ospedali e impedire l’arrivo degli aiuti
umanitari è una chiara strategia da quattro anni a questa parte. A
guidare il regime è un motto diventato tristemente famoso:
“inginocchiatevi o morirete di fame”. Il governo e i suoi alleati sono
determinati a togliere di mezzo chiunque si oppone a Assad: in ogni
modo. Compresa la fame e le bombe sugli ospedali».
Lei è scampato
per poco al raid che ad aprile ha distrutto l’ospedale dove lavorava e
ucciso diversi suoi colleghi: perché non se ne va?
«Per due
motivi. Il primo è che sono un medico: e non posso abbandonare un Paese
in queste condizioni. Il secondo è che sono fra quelli che sono scesi in
strada fra i primi nel 2011 per chiedere democrazia e diritti: molti di
quelli che erano con me sono morti, sono in carcere, sono stati
stuprati o torturati. Tanti hanno lasciato dietro di sé orfani e vedove:
queste persone meritano che qualcuno porti avanti la loro battaglia».
Può descriverci la sua giornata tipo?
«Mi
sono trasferito a vivere nell’edificio dove abbiamo spostato l’ospedale
dopo il bombardamento. È pericoloso, ma siamo pochissimi qui e c’è
sempre bisogno di noi. Così sono a disposizione sette giorni a
settimana, 24 ore su 24. Sono un medico generico, ma ormai faccio di
tutto. Mi occupo molto di pazienti di cardiologia o oncologia in questo
periodo. E poi, quando arrivano i feriti di un attacco tento di salvarli
in ogni modo: come tutti gli altri medici ».
Quando la foto del
piccolo Omran Daqneesh, salvato dalle macerie della sua casa, è
diventata virale, lei ha mandato un messaggio: di bimbi come lui ce ne
sono moltissimi qui… «Sono felice che Omran si sia salvato: come tutti,
sono rimasto ferito dal suo sguardo, dalla sua paura. Ma di bimbi come
lui ne vediamo tutti i giorni qui, e spesso non si salvano: le loro foto
non diventano virali perché sono impubblicabili. Troppo violente, corpi
irriconoscibili, arti mancanti, sangue ovunque. Di loro non si parla,
invece si dovrebbe: perché non bastano gli aiuti umanitari a salvare
questi bambini. Quelli possono solo allungare la loro sopravvivenza,
farli restare in vita qualche altro mese, se sono fortunati. Serve una
soluzione politica se volete salvare gli altri Omran: un intervento
militare o quanto meno l’imposizione di una no-fly zone in tutto il
Paese. Sono un medico, e mi pesa invocare un’azione militare: ma oggi,
da qui, vi dico che non c’è nessun’altra soluzione. Sfortunatamente, non
vedo arrivare piani realistici ».
Vuole fare un appello alla fine di questa intervista?
«Certo.
Voglio dire che in Siria non c’è solo l’Isis e il regime di Assad. Che
non siamo terroristi né violenti islamisti. In Siria c’è gente che vuole
vivere, non solo sopravvivere: avere il diritto di sognare e immaginare
un futuro libero. Voglio dire che i barili bomba cadono ogni giorno e
non sulle postazioni dello Stato islamico: cadono sul mio ospedale, sui
miei pazienti, sui miei colleghi. La Siria siamo anche noi».