La Stampa 26.9.16
Il senso di Calamandrei per la religione civile
Grande
giurista, eletto alla Costituente per il Partito d’Azione, moriva 60
anni fa: dall’antifascismo “angosciato” al liberalsocialismo
di Gian Enrico Rusconi
Pietro
Calamandrei era nato a Firenze il 21 aprile 1889. Professore in diverse
università, prima di approdare nella sua Firenze, fu volontario durante
la Prima guerra mondiale ma contrario alla Seconda. Nel 1942 fu tra i
fondatori del Partito d’Azione, nelle cui file fu eletto alla
Costituente. Al suo scioglimento aderì al Psdi, da cui si staccò in
opposizione alla «legge truffa» per fondare nel ’53 con Ferruccio Parri
il movimento di Unità Popolare. È morto a Firenze il 27 settembre 1956
Sessant’anni
fa, il 27 settembre 1956, moriva Piero Calamandrei, uno tra i maggiori
giuristi italiani del Novecento, eletto alla Costituente come delegato
del Partito d’Azione, fondatore della rivista Il Ponte. Scrittore
prolifico e affascinante non solo sui temi professionali e politici
affrontati con passione e ironia (ad esempio Chiarezza nella
Costituzione, del 1947, riproposto qualche anno fa con una introduzione
di Carlo Azeglio Ciampi), ma anche in scritti letterari e
autobiografici. Una figura ricca, complessa, anche controversa,
difficilmente classificabile nel panorama di oggi, e forse per questo
quasi dimenticata.
Attendismo sui generis
Calamandrei non è
il resistente attivo della prima ora. È l’incarnazione dell’antifascista
dotto, borghese, professionalmente qualificato ma frustrato e impotente
che «resiste» nel senso di tener duro nell’attesa della liberazione. Un
attendismo sui generis che non prende iniziativa diretta ma sa da che
parte stare e verso dove andare. Introducendo i suoi Diari (di recente
pubblicati in edizione integrale - due volumi,1939-1941 e 1942-1945 -
per le Edizioni di Storia e Letteratura) Mario Isnenghi ha fotografato
con precisione la situazione in cui viveva. La labilità dei confini, la
doppiezza consapevole, la promiscuità di chi da antifascista, o da non
immedesimato nel fascismo, continui a vivere in Italia - senza le
liberatorie rotture nette del carcere, del confino o dell’esilio -
costituiscono, al di là della dimensione autobiografica, il terreno di
coltura, la cifra di un indeterminato e forse anche maggioritario numero
di italiani fra le due guerre, con o senza tessera, in una società
composta, nel grado di assuefazione, di differenti cerchie e microclimi.
[...] L’eccezionalità della testimonianza di Calamandrei sta nel far
ritrovare indirettamente visibilità e parola a questi italiani. Quella
che si scrive e si descrive è anche una specie umana di “color che son
sospesi”».
Eppure Calamandrei ha le idee chiare, se il 20 febbraio
1943 troviamo in una pagina dei Diari il Leitmotiv del
liberalsocialismo che nell’enunciazione dei suoi principi arriverà sino a
Norberto Bobbio: libertà negativa vs libertà positiva, democrazia
formale vs sostanziale. Come programma politico, «a molti sembra troppo
poco di sinistra», scrive, «La solita accusa ai liberali: vi preoccupate
soltanto di ristabilire le libertà giuridiche che sono uno strumento
per perpetuare la servitù economica: viceversa fin da principio si
devono stabilire garanzie che evitino il solito pericolo che le libertà
giuridiche servano ai ricchi per asservire i poveri. Questo problema del
prius della forma sulla sostanza è il punto cruciale di ogni movimento.
Io credo che si debba francamente affermare che la libertà non vuol
dire soltanto libertà giuridica negativa (di coscienza, di stampa, di
riunione, di religione ecc.), ma vuol dire anche libertà economica
positiva (diritto al lavoro, diritto alla casa, diritto all’assistenza
medica, diritto all’assistenza di vecchiaia, diritto alla scuola).
Bisogna considerare come i nemici della libertà, come partiti non
permessi, quelli che negano queste libertà positive, senza le quali
quelle negative non hanno senso.Tutte le altre questioni - come si deve
organizzare la produzione, la proprietà ecc. - devono essere risolte in
funzione di queste libertà positive in modo da garantirle».
De
Felice nel suo volume Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra. Crisi e
agonia del regime (Einaudi 1990), fa molti riferimenti a Calamandrei. Ma
parla anche di «una sorta di incomunicabilità, di incomprensione che
rendeva estremamente difficili se non impossibili i rapporti tra i
superstiti antifascisti e i giovani, anche i migliori, i meno fascisti e
i fascistizzati». Particolarmente drammatici sono i rapporti di
Calamandrei con il figlio Franco, prima fascista entusiasta, poi
convinto comunista. Retrospettivamente. anni dopo lo stesso Franco
avrebbe attribuito al comportamento del padre di quel periodo «un
travaglio privo di prospettiva e a volte addirittura di ogni
riferimento, un antifascismo angosciato, ancor più che dalla propria
impotenza, di essere storicamente condannato alla sconfitta».
I diritti individuali
Ma
finalmente «liberato» (dalle truppe alleate) Calamandrei sembra
trasformato, si impegna attivamente nelle istituzioni fiorentine e
romane del Partito d’Azione. Eletto alla Costituente si dedica
interamente alla stesura della Costituzione, mirando a realizzare la
sintesi liberalsocialista con formule di ingegneria costituzionale che
rafforzino i principi di garanzia statuale e insieme sanciscano i
diritti individuali.
C’è un episodio poco noto nel contesto del
dibattito alla Costituente, quando Giorgio La Pira propone di inserire
in un preambolo la frase «In nome di Dio il popolo italiano si dà la
presente Costituzione». Per molti costituenti è in gioco la laicità
dello Stato. Memorabile l’intervento di Togliatti che dichiara di «non
capire» come si possa votare Dio a maggioranza. Calamandrei propone di
menzionare eventualmente in un preambolo i «morti per la libertà e la
democrazia». «Nella nostra Costituzione c’è qualcosa che va al di là
delle nostre persone, un’idea che ci collega al passato e all’avvenire,
un’idea religiosa perché tutto è religione quello che dimostra la
transitorietà dell’uomo ma la perpetuità dei suoi ideali». Le sue parole
ci suonano oggi forse un po’ enfatiche, ma vanno nel senso di quella
che chiameremmo «una religione civile». Erano altri tempi.
(Una
nota amara. «Calamandrei» a Torino è il nome del Centro di
documentazione, ricerca e studi sulla cultura laica. Attivo
organizzatore di convegni, editore dei Quaderni laici, punto di
riferimento per la minoranza laica cittadina. Adesso nella misera
congiuntura che investe le attività culturali anche torinesi il Centro è
senza sede e senza fondi; inspiegabilmente escluso dal Polo del
Novecento, dove avrebbe potuto essere ospitato. Ogni commento è
superfluo).