La Stampa 23.9.16
Un’arma per salvare l’Europa
di Giuseppe Cucchi
Oro
e ferro. Moneta ed armi. Potere economico e potere militare. Per
secoli, per millenni lo Stato, ogni tipo di Stato, si è appoggiato su
questi pilastri, difendendo gelosamente le sue prerogative nei due
settori contro ogni tentativo di intrusione.
Poi è arrivata
l’Unione Europea, e con l’Unione Europea è arrivato l’euro, la moneta
comune. Un salto di qualità che ha richiesto a tutti i protagonisti un
notevole coraggio, la capacità di guardare lontano, di sottoscrivere una
scommessa che avrebbe anche potuto dare frutti amari. L’euro invece è
stato un grande successo, imponendosi col tempo come il vero pilastro
fondante della organizzazione, il collante che tiene insieme qualcosa,
l’Unione, che tende a scollarsi da tutte le altre parti e che forse non
esisterebbe già più se non ci fosse la moneta comune.
Con la difesa non abbiamo avuto lo stesso coraggio che abbiamo dimostrato con l’economia.
Il
primo tentativo lo facemmo nel 1954, con quella Comunità europea di
difesa, la Ced, che i francesi furono i primi a proporre ed i primi a
bocciare dopo aver constatato come fosse impossibile creare in tale
ambito un esercito tedesco più grande di quello russo ma nel contempo
più piccolo di quello dei nostri cugini d’oltralpe. Forse comunque era
ancora troppo presto per riuscire a dimenticare le ferite che ci eravamo
inferti a vicenda per tantissimi anni ed in particolare nelle due
guerre mondiali del secolo scorso.
Ci buttammo così nelle braccia
di una Alleanza Atlantica ben decisa invece a far crescere, passo dopo
passo, la Nato, il suo braccio militare. Essa si presentava come il
simbolo del legame transatlantico fra gli Stati Uniti e l’Europa ed
avrebbe dovuto, almeno in teoria, reggersi su due pilastri, quello
americano e quello europeo. Nei fatti però soltanto il primo raggiunse
rapidamente il suo pieno sviluppo. Il secondo rimase sempre qualcosa fra
l’aspirazione, il sogno e la speranza non concretizzandosi mai
completamente. I membri europei della Nato, con l’eccezione per un certo
periodo della Francia del generale De Gaulle, diedero così vita ad una
Nato che anziché essere basata su due pilastri risultava stellare, con
gli Usa al centro e legami bilaterali fra loro e ciascuno degli altri
membri.
Dell’aspirazione ad una difesa comune europea rimaneva
soltanto una traccia nella Unione Europea Occidentale, una
organizzazione che aveva un bellissimo trattato fondante ma restava un
guscio vuoto, anche se qualcuno di tanto in tanto proponeva di
«rivitalizzarla». L’ultimo fu il nostro Spadolini, negli Anni Ottanta.
Qualcosa
di più completo sembrò sul punto di realizzarsi nel decennio
successivo, allorché l’Europa sperò che gli «Accordi di Saint-Malo» e le
azioni che ne derivarono potessero in effetti essere l’innesco giusto
per arrivare ad avere non soltanto una moneta ma anche una difesa
comune.
Si trattò di una speranza destinata ancora una volta a
rimanere vana, nonostante il momento politico - contrassegnato per
l’Unione dal ricordo della recente paura di essere contagiata dalla
insicurezza balcanica e dalla frustrazione di non avere i mezzi militari
necessari per fare alcunché da sola - risultasse particolarmente
favorevole.
La costruzione fu iniziata, si crearono un comitato
militare, uno stato maggiore internazionale, una Agenzia degli armamenti
comune e molti altri pezzi di un puzzle che non venne però mai
completato. Vi si opposero con veemenza, usando la Nato come principale
strumento, gli Usa dei neo conservatori che intendevano continuare a
disporre dell’Alleanza a loro piacimento utilizzandola soprattutto come
il serbatoio da cui attingere alleati, comandi, reparti, uomini e mezzi
per le coalitions of the willings da loro patrocinate. Una aspirazione
per cui la presenza di un pilastro europeo forte, integrato magari con
la difesa comune della Ue, avrebbe costituito un notevole intralcio.
Nella schermaglia per contenere al massimo le nostre iniziative nel
settore la frase chiave fu quella sulla «necessità di evitare
dispendiose duplicazioni». Gli americani inoltre trovarono un
solidissimo ed efficace alleato in un Regno Unito che evidentemente
valutava il suo rapporto particolare con gli Usa nello specifico settore
molto più della solidarietà con l’Unione.
Per altri dieci anni
l’idea di una difesa comune fu quindi riposta di nuovo in fondo
all’armadio. Rinasce e si ripresenta adesso, nel tumulto di una Ue che
teme per la sua sopravvivenza ed avverte la necessità di cambiare senza
però riuscire a farlo. È uno di quei momenti in cui occorrerebbe come
non mai un colpo d’ala, l’idea che possa se non altro contribuire a
rendere il processo europeo irreversibile prima che ognuno degli Stati
membri se ne vada per la propria strada. Abbiamo messo in comune l’oro,
forse è venuto il momento di condividere anche il ferro. Non che sia una
strada facile, anche tenendo conto del fatto di come la Brexit, che ci
ha tolto dal fianco la spina inglese, dovrebbe contribuire notevolmente
ad agevolarlo. Restano però ancora altre diffidenze forti da vincere,
quella americana, quella dei membri non Ue della Alleanza Atlantica,
prima fra tutti la Turchia, quella della Nato, organizzazione fortissima
e con una sua personalità ben distinta da quella di tutti gli Stati
membri. Ci sono poi considerazioni di bilancio pesanti da affrontare in
un periodo di chiari di luna, poiché creare ha sempre un costo e creare
in questo settore avrà un costo particolarmente pesante. Ci sono
considerazioni di razionalizzazione dell’intera industria europea di
difesa, difficilissime da risolvere e che innescheranno per anni, se non
per decenni, contenziosi economici e politici nazionali ed
internazionali.
C’è infine il problema di forgiare quei pezzi del
puzzle che la «necessità di evitare costose duplicazioni» ci aveva
sempre impedito di strutturare, primo fra tutti un comando delle Forze
europee che sia l’equivalente di «Shape» per la Nato. Una mossa proposta
cento volte e cento volte bocciata per la feroce opposizione americana,
turca ed inglese. Da domani sul tavolo della Unione Europea ci sarà una
nuova proposta italiana che mira a far ripartire tutto il settore. Non è
importante come e perché essa nasce, se è o meno condizionata dalle
speranze di Ventotene o dalle delusioni di Bratislava, se viene
inoltrata da un paese che resta indocile nel settore economico ma rimane
comunque uno dei fondatori dell’Unione, e non dei minori!, se è in
controtempo con le aspettative di chi vorrebbe invece discutere altri
argomenti. In realtà la proposta è sul tavolo solo perché i tempi sono
ormai maturi. Il primo pilastro, l’oro, ha resistito sino ad adesso,
mantenendo unita la Ue, ma inizia a vacillare sotto i colpi di troppe
spinte centrifughe. Occorre affiancargli rapidamente il secondo.