La Stampa 19.9.16
Il dogma della stabilità alla russa
di Stefano Stefanini
Sono
durati poco i tempi nei quali il mondo attendeva con apprensione
l’esito del voto in Russia. Ieri, la curiosità era minima. Ci si
domandava solo come Vladimir Putin sarebbe uscito dalle elezioni. Stando
agli exit poll, ne esce esattamente come prima.
In pieno
controllo della politica russa. Il che gli basta per guardare con
distacco ai problemi che affliggono le controparti occidentali.
I
russi hanno votato con scarsa diligenza (a malapena 40% di affluenza
alle urne) più per stanca disciplina che per convinzione.
Disciplinatamente, hanno ridato a Russia Unita una netta maggioranza;
qualche seggio perso non fa differenza. In una Duma docile le
opposizioni comunista e liberaldemocratica fanno salvo l’esercizio di
democrazia, ma non incidono minimamente sui rapporti di potere.
Il
voto di ieri esprime semplicemente attaccamento alla stabilità. Putin
ha saputo abilmente cavalcarla, facendosene identificare come il
garante. E’ questo che gli assicura un consenso stratosferico pur
dovendo chiedere ai russi di tirare la cinghia, a causa del crollo dei
prezzi di petrolio e gas e delle sanzioni occidentali. La pazienza non
durerà in eterno, ma intanto il Presidente incassa, senza molto sforzo,
un nuovo Parlamento sempre ligio al potere che conta - il Cremlino. Può
così guardare con tranquillità alle elezioni presidenziali, previste nel
marzo del 2018; non ha detto che si ripresenterà ma tutti, in Russia e
fuori, se lo aspettano.
Lo stridente contrasto con l’Europa e con
l’Occidente non sta solo nella capacità russa di produrre una solida
maggioranza parlamentare, che in Europa manca praticamente dappertutto.
La Russia ci arriva grazie alla mobilitazione del governo, al controllo
dell’informazione e alla coalizione di forze, come la Chiesa ortodossa,
coagulate intorno all’orgoglio nazionale. Sono tratti della «democrazia
sovrana» di Putin incompatibili con le nostre democrazie. Ma colpisce
soprattutto l’abisso che separa il desiderio russo di stabilità dalle
ansiose e profonde insoddisfazioni occidentali. L’uno si traduce
nell’acritica conferma del leader e del partito al potere; le seconde
nella ribollente rivolta populista contro il funzionamento degli interi
sistemi politici in Europa e negli Stati Uniti e contro le figure e le
istituzioni, in particolare dell’Ue, che vi s’identificano.
Putin
ha avuto un’ottima estate. Si è riconciliato con Erdogan. Si è reso
indispensabile in Siria, al punto di contemplare azioni militari
congiunte con gli americani contro lsis. Il referendum britannico e
l’insipienza politica di Bruxelles gli hanno servito Brexit su un piatto
d’argento. Tedeschi e francesi hanno arricchito il piatto con il
fallimento dichiarato di Ttip. Putin non è antieuropeo, ma preferisce
gli europei divisi che non uniti - si tratta meglio. Del pari, non è
detto che aneli ad avere un presidente Trump con il dito sul bottone
nucleare, ma non gli dispiace che una campagna elettorale americana in
cui entrambi i candidati hanno alti indici d’impopolarità laceri gli Usa
e indebolisca il futuro Presidente, chiunque sia, prima ancora
d’entrare alla Casa Bianca.
Stamattina, dalle finestre del
Cremlino, Vladimir Putin vede un’Europa divisa e un’America inquieta.
Oltreoceano le rudimentali bombe di Manhattan e il selvaggio
accoltellamento in Minnesota ravvivano le paure di terrorismo domestico.
Il «saremo duri» di Donald Trump sarà qualunquistico (con chi? come?)
ma ha più appeal elettorale della misurata reazione di Hillary Clinton.
Con
una coesione che ha sorpreso i russi, l’Ue ha dato non pochi fastidi a
Mosca. Se viene meno, la Russia ha tutto da guadagnare. Orfana del Regno
Unito, il resto dell’Ue era chiamato a una prova di maturità. Invece
Bratislava è stato un fallimento. L’Ue a 27 si è rivelata più divisa
dell’Ue con Londra dentro.
A farla ripartire non basta certo lo
stanco e squilibrato «motore» franco-tedesco. E’ velleitario pensare che
Roma, da sola, possa correggere la rotta; Matteo Renzi non può non
sapere che per convincere l’Africa a controllare la fuga immigratoria ci
vuole l’intera Europa. Le spinte centrifughe verso la formazione di
gruppi geografici, come Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e
Slovacchia), i «nordici» più Germania, il Sud indebitato, rischiano di
dilaniare il tessuto dell’Unione.
Vladimir Putin conosce il nerbo
dell’Occidente. Europa e Stati Uniti sono in grado di superare questa
fase di difficoltà, in buona parte autoinflitte. Il rapporto con la
Russia continuerà ad oscillare fra partnership e competizione. Ma,
guardandosi intorno all’indomani di un voto che conferma Mosca come
un’isola di stabilità politica, non può che compiacersi del disordine
altrui. Domani si vedrà, ma oggi si sente in una botte di ferro.