La Stampa 18.9.16
La condanna del carcere: 7 su10 ritornano dentro
Il
grande fallimento delle prigioni: nonostante gli obblighi di legge, il
70% dei detenuti non lavora e solo il 5% ha un impiego qualificato
L’esperienza
della cooperativa Giotto a Padova, che grazie all’occupazione riduce la
recidiva al 3%. I carcerati: “L’impegno ci cambia la testa”
di Andrea Malaguti
Carcere
Due Palazzi di Padova. Sulla parete bianca del piccolo spazio dove un
gruppo di detenuti prende aria durante una pausa lavoro, una scritta in
portoghese dice: «Dall’amore non si fugge». Forse è vero. E dal crimine,
invece? Quasi mai segnalano le incomplete statistiche del ministero
della Giustizia e del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria,
dalle quali si deduce che sette persone su dieci rilasciate dalla
prigione prima o dopo ci rientrano.
Scontano le pena, delinquono e
vengono arrestate di nuovo, in una giostra senza fine che riguarda a
rotazione circa duecentomila uomini e donne in Italia, 54mila dei quali
sono oggi dietro le sbarre. «La situazione è disastrosa. E fa
impressione vedere che non esistono numeri ufficiali sulla recidiva.
Significa che il Sistema ignora uno dei dati fondamentali legati alla
funzione della pena», dice Alessandro Scandurra dell’Associazione
Antigone, scattando la fotografia di un ennesimo fallimento italiano.
Un fallimento che costa alla collettività tra i tre e i quattro miliardi l’anno.
Il lavoro negato
Eppure
l’articolo 27 della Costituzione recita: «Le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato». E l’articolo 1 dell’ordinamento
penitenziario ribadisce il concetto: «nei confronti dei condannati deve
essere attuato un trattamento rieducativo che tenda (...) al
reinserimento sociale degli stessi». L’articolo 13, va persino oltre,
tentando il triplo carpiato rovesciato della civiltà giuridica: «nei
confronti dei condannati deve essere predisposta l’osservazione
scientifica della personalità (...) su cui intervenire con un programma
individualizzato di trattamento rieducativo». L’idea di fondo è che se
il recupero e il reinserimento falliscono il danno per la collettività è
enorme in termine di costi e di sicurezza. Bene. Favoloso. Uno schema
studiato in ogni angolo del pianeta e totalmente disatteso da noi. La
legge c’è, ma se non ci fosse sarebbe uguale. E’ un problema
irrisolvibile o a un problema che non si vuole risolvere? L’esperienza
dice che il rimedio alla recidiva esiste. E quel rimedio si chiama
lavoro, attività dalla quale - anche qui in totale inadempienza
legislativa - il 70% della popolazione carceraria resta esclusa.
Curiosamente la stessa cifra della recidiva.
Per altro servirebbe
non un lavoro qualunque, ripetitivo e saltuario come quello che riguarda
poco meno del 29% dei detenuti - scopini, cucinieri o lavandai,
retribuiti con quello che loro stessi hanno ribattezzato «sussidio
diseducativo» - ma un lavoro che prepara al ritorno all vita esterna
come quello che viene appaltato a un ristretto gruppo di aziende in giro
per l’Italia, a cominciare dalla cooperativa «Giotto» di Padova, che
nei suoi 26 anni di attività all’interno del Due Palazzi ha formato e
reinserito centinaia di carcerati. «Il tasso di recidiva di chi lavora
con noi? È compreso tra il 2 e il 3%», dice Nicola Boscoletto,
presidente della coop veneta. Il 2-3 contro il 70. «E i nostri calcoli
dicono che ogni punto di recidiva abbattuto farebbe risparmiare allo
Stato 40 milioni l’anno».
Dall’omicidio alla vita
Il Due
Palazzi è una casa di reclusione, vale a dire che i suoi 604 ospiti
hanno tutti subìto una condanna definitiva. Ci sono detenuti comuni,
detenuti ad alta sicurezza e detenuti protetti, cioè gli uomini
apparentemente più pericolosi di questo Paese e nella fiera campionaria
della criminalità non manca nulla: assassini, rapinatori, pedofili,
mafiosi. La Giotto dà lavoro a circa 140 di loro, in un ampio spazio al
piano terra dove ci sono un laboratorio per assemblare le valigie, una
pasticceria che rifornisce duecento esercizi commerciali in tutta Italia
e un call center che impiega cento persone occupandosi anche di
gestione di procedimenti amministrativi, di prenotazioni per gli
ospedali, di digitalizzazione di documenti o di pen drive per la firma
digitale. Roba piuttosto complessa. La sala del call center è
rettangolare, lunga, pulita, piena di computer e su una parete c’è la
riproduzione dei dipinti di Giotto alla Cappella degli Scrovegni. Il
bene e il male che corrono in direzione opposta uno accanto all’altro.
Quando
Jacopo, che oggi ha 27 anni, è arrivato al Due Palazzi, era già stato
nei penitenziari psichiatrici di Castiglione delle Stiviere, Aversa e
Reggio Emilia. Rinchiuso nel 2009 dopo avere ammazzato un amico con
crudeltà e per futili motivi. «Non mi ricordo neppure più quali
fossero», dice ora con uno sguardo chiaro, apparentemente pacificato. La
sua vita era piena di smorfie fasulle e di sorrisi cattivi. Nei giorni
del processo la diagnosi per lui, aggressivo fin da bambino e incapace
di stare con gli altri, fu: schoizofrenia paranoide. Oggi per i medici
non è più pericoloso. «Ma negli ospedali psichiatrici l’unico
trattamento che c’era per me era farmacologico. Io chiedevo di lavorare,
magari in biblioteca, e la risposta era sempre: no, fai paura. Morale:
cercavo di scappare». A Padova gli è successo il contrario. La psicologa
della Giotto lo è andato a cercare. Vuoi lavorare per noi ? Jacopo l’
ha guardata strano. «Lo sai chi sono? Mi sono chiesto se il matto fosse
lei». Non era matta. Gli ha aperto le porte del call center. «Stavo
seduto un’ora e mi scoppiava la testa. Adesso è la mia vita. Quando mia
mamma ha saputo del lavoro non è riuscita a trattenere le lacrime dalla
felicità». Il lavoro per la Giotto cambia quello che ha fatto? No. Ma ha
cambiato lui. «Un tempo ero convinto che tutto il mondo ce l’avesse con
me. Che il problema ce l’avessero gli altri, non io. Oggi penso
positivo, è la prima volta in vita mia. E quando mi siedo al computer
non mi scoppia più la testa». La sua pena finirà nel 2030. E quando
uscirà saprà cosa fare. «Al call center mi chiedono consigli anche
uomini della Polizia, è bello».
Apre la porta a vetri della
saletta di fronte alla sua postazione e si siede a un tavolo
rettangolare. Di fianco a lui ci sono Roberto, tre omicidi, fine pena
2033 (è entrato nel 2003), Mustafa, 31 anni, che in carcere è già
tornato quattro volte per rapina aggravata e reati di droga e uscirà nel
2021, e tre ergastolani. Giovanni, albanese, condannato per omicidio,
Guglielmo e Angelo, condannati a loro volta per omicidi commessi per
conto delle cosche mafiose alle quali erano affiliati. Sono uomini
magnetici e tormentati, non privi di segreti, ma con una convinzione
comune. «Il lavoro ti cambia la vita». Guglielmo, fine pena mai, viene
da Gela e di galere ne ha girate parecchie. Ha 44 anni. È dentro da 22.
«Negli altri penitenziari la mia vita era solo aria e cella, cella e
aria. Sono un detenuto As (alta sicurezza) e con i miei compagni di
braccio parlavo solo di reati». Esattamente come gli capitava in Sicilia
da bambino. Quartiere piccolo. Pistole. Grandi boss da imitare. Un
percorso obbligato. «Ho cominciato ad aprire un po’ gli occhi quando
dietro le sbarre ho incontrato due ex terroristi. Uno dei Nar e uno
delle Br. Mi hanno spinto a leggere. Balzac. Arrivato a Padova mi sono
iscritto a ragioneria. Mi sono diplomato. Poi ho incontrato la Giotto. E
il lavoro ha cambiato la mia mentalità. Ho scoperto che sono in grado
di fare cose difficili. Ne vado fiero. E adesso in cella parlo di come
affrontare il lavoro». Del passato vorrebbe cancellare tutto, come se
potesse guardare le rovine di quella Torre di Babele siciliana. «Il
lavoro ti cambia». Lo dice lui, lo dice Roberto («il lavoro ti fa
sentire accettato come persona»), lo dice Mustafa («Non credevo che in
carcere esistesse una realtà così»), lo dice Giovanni («sono entrato in
relazione con gli altri»), lo dice Angelo, che in galera è arrivato nel
’91 e non è più uscito neppure un giorno. «Il lavoro mi ha rimesso in
gioco. Mi ha preso dentro. Mi fa finalmente entrare anche nella testa
degli altri ». Sul tavolo pizzette e cioccolatini. Li hanno fatti
colleghi pasticcieri. Boscoletto dice: «Non serve la rivoluzione, in
carcere. Basta applicare le leggi che ci sono già». Semplice. Ma su
duecento carceri si contano sulle dita di due mani quelle che possono
vantare esperienze simili. I detenuti che svolgono attività qualificanti
sono meno del 5% del totale. Per gli altri bisogna fare affidamento
ancora una volta a una frase scritta su uno dei muri bianchi del Due
Palazzi. Una citazione rubata a un Peppone e Don Camillo di Guareschi,
una speranza che è un meraviglioso nonsenso: «Non muoio neanche se mi
ammazzano».
Rebibbia e castigo
Se il Due Palazzi di Padova è
l’eccezione, il carcere romano di Rebibbia, monumento alla complessità,
è la regola. Trecento detenuti al lavoro, mille e cento scaricati
nell’assurdo limbo dell’ozio, ventidue ore in cella a guardare la tv, a
stordirsi in un calderone di pensieri rancidi e a farsi indottrinare dai
boss della criminalità organizzata. Qualcuno li spinge a lavorare?
Nessuno. «Il carcere così com’è è più dannoso che utile. La legge parla
di risocializzazione, ma qui io vedo solo reclusione. Rebibbia è un
asilo infantile, un ospedale, una clinica per malati di mente e un
concentrato di tossicodipendenti. E allora mi chiedo a che cosa serva
spendere tutti questi soldi», dice don Pier Sandro Spriano, cappellano
dell’istituto penitenziario dal 1989. L’amministrazione carceraria
(55mila dipendenti, 38 mila guardie, 200 istituti di pena) parla di una
spesa di tre miliardi l’anno, con un costo per detenuto di 125 euro al
giorno, ma nei conti non considera le spese per l’edilizia, quelle per
l’istruzione e i corsi di alfabetizzazione (i soli detenuto stranieri
sono oltre 18 mila, come si entra in relazione con loro?), per le
strutture informatiche o per i braccialetti elettronici. Numeri che
sfuggono a qualunque radar, al pari delle statistiche sulla recidiva e
sulla qualità dei rari percorsi riabilitativi. «Le leggi sono lì. E non
sono neanche troppo male. Ma la verità è che il recupero viene fatto dal
volontariato esterno, non esiste un sistema paese che se ne occupi»,
aggiunge don Spriano. Paradossalmente la politica parla con insistenza
di ponti tra il dentro e il fuori, evitando però di occuparsi in maniera
strutturale e non emergenziale del problema. «Questo governo ha creato
un nuovo modello di pena, puntando su un cambio culturale che spinga
verso una pena certa, umana e diretta a riabilitare i detenuti. Dunque
anche a ridurre la recidiva», dice il sottosegretario alla Giustizia
Cosimo Ferri . In galera però non si nota. «Dentro il carcere il
percorso è più complicato, ma io mi impegno a raccogliere in maniera
sistematica i dati sulla recidiva d’ora in avanti». Un’altra piccola
promessa tardiva. E allora bisogna rifugiarsi nella speranza contenuta
nella frase del carcere di Padova, quella scritta in portoghese. La
pronunciò un galeotto brasiliano che dopo essere fuggito dodici volte da
dodici prigioni diverse, fu mandato in una struttura gestita anche da
civili. E da lì non se ne andò più. Quando il magistrato gli chiese:
«perchè da qui non evadi?», lui rispose con cinque parole: «Dall’amore
non si fugge».