La Stampa 14.9.16
Bersani non segue D’Alema
“Niente comitati per il No”. Ed esclude la scissione Pd
La sinistra teme la diaspora dei dirigenti nei territori
di Carlo Bertini
«Voto
no, ma non faccio campagna, il mio voto vale uno. Ai dibattiti o in tv
dico come la penso, almeno questo sarà legittimo credo». In aula ci sono
i primi voti della stagione, il Transatlantico brulica e Pierluigi
Bersani è un fiume in piena. L’ex segretario di fatto si smarca da
Massimo D’Alema quando gli si chiede se pure lui organizzerà o
parteciperà ai comitati del No. Fa capire che non ci pensa affatto, che
non vuole fare azione di proselitismo. Forse perché da ex leader non gli
sembra elegante organizzare campagne attive contro la posizione
ufficiale del suo partito. Stasera Speranza e compagni riuniti a
conclave decideranno cosa fare ma il loro leader detta la linea: un No,
senza fare i Comitati. Il retropensiero - che gira tra i suoi - è che
sui territori i dirigenti locali temono il rischio di rotture insanabili
nel corpo del Pd un minuto dopo la chiusura delle urne. Quindi calma e
gesso. Per questo tiene a chiarire che malgrado «io e Renzi abbiamo due
idee diverse di democrazia, perché lui è per la semplificazione
estrema», queste due idee «possono convivere in un grande partito: anche
perché è un dibattito che c’è in tante parti del mondo». Come a dire
non c’è pericolo di scissione, non ce ne andremo se pure vincerà il Sì e
verremo messi all’angolo.
Dopo aver detto all’inizio che avrebbe
votato sì a condizione che l’Italicum cambiasse, ora che Renzi ha
annunciato di volerlo cambiare, Pierluigi Bersani dice che invece voterà
no: perché non crede che il premier abbia veramente in animo di
proporre modifiche elettorali. Tanto che si lascia scappare un auspicio
che suona in contraddizione con l’aver accusato il premier di aver messo
la fiducia sull’Italicum. Prima dice «voglio vedere se qualcuno ci
spiega perché si deve cambiare questa legge approvata contro il volere
di tutti con la fiducia». Poi però, con chi gli fa notare che è impresa
ardua cambiare una legge elettorale, sbotta. «Andiamo, se c’è la volontà
politica, si può cambiare prima del referendum, in due mesi: come fece
l’altra volta Renzi con la fiducia. Se vuole, potrebbe mettere la
fiducia pure stavolta», dice l’ex leader. Che voterebbe una legge
elettorale nuova su cui fosse posta la fiducia. Risponde con un
sorrisetto imbarazzato, «eh sì, a malincuore la voterei».
Si
infervora Bersani. Mani in tasca, circondato da cronisti, difende le sue
ragioni: è vero che con una legge che non dà una governabilità certa in
Spagna votano tre volte in un anno, ma la rappresentanza è un valore
«perché quei movimenti come Ciudadanos nel frattempo vengono assorbiti,
rientrano nel sistema democratico. Non restano fuori da tutto come in
Francia è successo a Le Pen, che aveva solo due deputati e ora quella
forza rischia di diventare esplosiva. Insomma, quello che dico io è che
semplificando troppo, poi vince chi semplifica di più ed è un problema».
Bersani
non crede in uno sbocco concreto dei colloqui che già tutti i partiti
cominciano ad avere con il vicesegretario Guerini: dunque si dispone a
votare no al referendum, con un moto d’orgoglio nazionale verso l’uscita
dell’ambasciatore americano. «Sono cose da non credere. Ma per chi ci
prendono?». Con una chiosa contro Renzi, perché «aver allestito un
appuntamento come fosse un giudizio di Dio darà fiato alla speculazione
finanziaria e a tutti quelli che vogliono mettere mano sul nostro
destino. Chi può deve raffreddare questo clima. Perché il giorno dopo il
referendum, sarà tutto come il giorno prima. Con lo stesso governo e
con gli stessi problemi».