La Stampa 10.9.16
Scoppia la lite europea sull’austerity
Berlino: irresponsabile il vertice di Atene con Italia e Francia. Renzi: soffrono il nostro attivismo
Il puzzle che paralizza l’Europa
di Marta Dassù
Non
è vita facile per economisti e politologi: è arduo interpretare e
ancora di più prevedere. Dalla teoria (fallita) sul 1989 come «fine
della storia», alle premesse (non capite) della crisi finanziaria del
2008, fino ai sondaggi (sbagliati) sul referendum britannico del giugno
scorso, la «scienza triste» e le scienze sociali hanno compiuto una
serie di errori. Ma esistono anche le tesi che reggono alla prova dei
fatti e che andrebbero utilizzate di più per analizzare la crisi
europea.
È il caso, mi pare, del «trilemma» di Dani Rodrik:
globalizzazione economica, democrazia politica e Stato-nazione sono fra
loro inconciliabili. Allo stato attuale - ha scritto cinque anni fa
l’economista turco/americano - non è possibile creare un sistema stabile
che riesca a tenere insieme i tre elementi dell’equazione: l’Europa è
in crisi, molto semplicemente, perché non è riuscita in questo compito
storico. La realtà è che possiamo rendere compatibili solo due di queste
tre cose: la democrazia è compatibile con la sovranità nazionale solo
limitando la globalizzazione degli ultimi decenni. All’inverso, per
avere insieme democrazia e globalizzazione, è la sovranità nazionale che
deve essere limitata. In effetti, si tratta di compiere una scelta, con
i relativi costi e benefici.
Ma poiché una scelta vera non viene
compiuta sul tavolo europeo, sono le singole democrazie nazionali a
entrare in sofferenza, insieme all’Ue.
Lo conferma il caso della
Spagna. Il Paese è rimasto senza un potere esecutivo centrale
dall’inizio dell’anno e dopo un paio di elezioni mancano ancora le
condizioni per formare un governo. Lo stallo politico non ha d’altra
parte danneggiato l’economia. Con il pilota-automatico innestato, si
prevede che la Spagna (dove peraltro la disoccupazione resta attorno al
20%) cresca del 3% entro fine anno. E’ la prova che la politica non
serve, hanno osservato alcuni; anzi che fa danni, hanno aggiunto con
soddisfazione altri - con una sorta di nostalgia «anarco-capitalista».
La realtà è diversa: questa «ripresa-senza politica» è stata innescata
dalle riforme economiche precedenti del governo Rajoy e mostra già la
sua preoccupante fragilità. Il rischio è che fra credito facile del
sistema bancario e aumento del deficit, la Spagna torni abbastanza
rapidamente in condizioni critiche. Entro l’inizio del prossimo anno il
Paese dovrà presentare una Legge di bilancio che tenga conto dei vincoli
europei, per flessibili che siano. Sarà possibile, come evidente, solo
risolvendo questo vero e proprio stallo del sistema politico. Applicando
il «trilemma» di Rodrik al caso della Spagna, è la funzionalità della
democrazia a soffrire. A differenza che nel caso della Germania, i
partiti tradizionali - messi di fronte a nuovi attori politici
(Ciudadanos, Podemos) - non riescono facilmente a piegarsi a logiche di
«grande coalizione». E così la vecchia linea di divisione della politica
novecentesca (destra/sinistra) si combina alla nuova frattura (sistema e
anti-sistema). Si può aggiungere che la debolezza del governo centrale
favorisce le spinte centrifughe interne - in questo caso il
secessionismo catalano.
La Brexit è un esempio diverso: qui il
tentativo di sfuggire alla camicia di forza del «trilemma» è attraverso
il recupero - per vero o finto che sia - della piena sovranità
nazionale. L’immigrazione ha spinto in modo potente in questa direzione,
fuori dall’Ue e fino alla decisione del Muro di Calais. L’economia del
Paese, e soprattutto il cuore finanziario della City di Londra, ha retto
il primo impatto di un’uscita annunciata e che per ora non c’è. E’ un
nuovo caso di previsioni sbagliate. Ma solo l’esito dei futuri negoziati
con l’Unione europea - il che significa: la posizione finale della Uk
rispetto al mercato unico, con tutto il suo peso per l’economia
britannica - indicherà il «prezzo» del sovranismo all’inglese. Anche per
il Regno Unito, come per la Spagna, esiste un rischio di frammentazione
interna. Il che conduce a una conclusione: la crisi dell’Ue potrebbe
produrre non solo la «rinazionalizzazione» già in atto delle dinamiche
europee ma la disgregazione di una parte degli Stati nazionali
esistenti. Stati più deboli nell’illusione di essere più forti. E che
comunque non riescono a condividere la sovranità nazionale in modo
efficiente - nell’interesse, cioè, della sicurezza dei cittadini europei
rispetto ai rischi di oggi (disoccupazione, migrazioni, terrorismo,
ambiente, crisi ai confini etc).
Il puzzle di Rodrik non ha certo
soluzioni semplici. L’alternativa, per i governi europei, è fra
maggiore integrazione politica o riduzione del tasso di integrazione
economica. Il primo passo appare arduo nelle condizioni attuali,
dominate dai cicli elettorali; ma sarebbe lungimirante. Il secondo è una
tentazione ad alto rischio, che si tratti di euro a geometrie variabili
o di pulsioni protezionistiche - confermate dalle posizioni tedesche e
francesi contro il Ttip, il Trattato commerciale e sugli investimenti
con gli Stati Uniti, che appare peraltro morto e sepolto anche nella
campagna elettorale americana. Nel dopo-Brexit e con una nuova
amministrazione a Washington che sarà in ogni caso meno proiettata
sull’Atlantico, i pericoli di tensioni protezionistiche aumenteranno.
Se
un aumento di integrazione politica è difficilmente pensabile e una
riduzione di quella economica è un azzardo, il rischio vero è che i
governi europei continuino a non decidere affatto. A rinviare una scelta
essenziale. Nell’età dell’insicurezza e delle previsioni impossibili,
l’unica certezza è che si tratta di un errore. Se non sceglieremo
nessuna di queste due soluzioni, il rischio diventerà esistenziale: la
crisi delle nostre democrazie.