Il Sole Domenica 11.9.16
Vite «sdraiate»
Antagonisti verso se stessi
Dalla lotta del passato fatta di doveri, codici e imposizioni si è arrivati oggi a un io fragile, indifeso e narcisistico
di Remo Bodei
La
lotta di cui parlerò è quella che ciascuno combatte, fin dall’infanzia,
per costruire se stesso confrontandosi con gli altri e con il mondo.
Essa comporta, inevitabilmente, l’obbligo di sottomettersi a una dura
disciplina, fatta di doveri, codici di condotta e modi «appropriati» di
pensare e sentire, dapprima imposti dall’esterno e poi interiorizzati e
rielaborati.La vittoria su se stessi, ammesso che si consegua, non è
mai, tuttavia, completa e definitiva. Implica un aspro conflitto che
scinde la volontà, opponendo una parte di noi che cerca di prevalere a
un’altra riluttante a piegarsi e sempre pronta a ribellarsi o a
negoziare compromessi al ribasso. Ogni persona porta in sé le ferite e
le cicatrici di questa guerra per distaccarsi dalla propria vita
meramente biologica. Nello steso tempo, tenta di emendarsi da idee e
forme di condotta riprovevoli in modo da conquistare una sempre maggiore
autonomia.
In tale confronto l’individuo, rischiando di logorarsi
e di perdersi, avverte la tentazione di lasciarsi andare, di
abbandonare l’arena del conflitto, di cedere al desiderio di
irresponsabilità o di dare retta ai richiami della nostalgia, che lo
invita a mettere indietro l’orologio della propria storia e ad
abbandonare la battaglia. Troppe appaiono le «spine» che i comandi e gli
obblighi hanno conficcato nella sua carne, troppi gli insuccessi e le
inadeguatezze cui è andata incontro.
Nella nostra tradizione la
sfida a combattere contro se stessi si è modellata non solo secondo
tecniche di autocontrollo, ma anche grazie all’elaborazione di fini in
grado di includere e orientare l’intera esistenza, ossia mediante ideali
di «vita buona» o di perseguimento del «sommo bene». Tra gli
innumerevoli paradigmi predisposti nel tempo e nello spazio, ho deciso
di esaminarne soltanto due, quelli canonici di cui – mediante molteplici
filtri e ibridazioni – siamo noi stessi gli eredi. Entrambi si basano
sulla metafora sportiva della corsa, declinata, in modi sostanzialmente
diversi, da San Paolo e da Thomas Hobbes.
Leggiamo nella prima
Lettera ai Corinzi: «Non sapete che nelle corse dello stadio tutti
corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da
conquistarlo! Però, ogni atleta si sottopone in tutto alla disciplina.
Essi lo fanno per poter ottenere una corona corruttibile, noi invece
incorruttibile. Anch’io, dunque, corro ma non come chi è senza meta.
Faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria. Anzi, colpisco duramente
il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo aver
predicato agli altri, io stesso venga squalificato».
Il cristiano
corre, dunque, per conseguire la vita eterna, il paradiso. Entra in una
gara alla quale tutti possono partecipare, ma che ha i suoi campioni: i
martiri, gli atleti di Cristo, coloro che, subendo torture e morte,
hanno strenuamente lottato per testimoniare la propria fede. Essi sono
perciò rappresentati con in mano il ramo di palma dei corridori
vittoriosi (la simbologia rinvia anche al fatto che l’albero di palma
produce un’inflorescenza quando sembra ormai morto). Una volta cessate
le persecuzioni, la lotta dei cristiani si interiorizza: non più la
coraggiosa resistenza a sofferenze stoicamente sopportate. Ora gli
anacoreti, i monaci, i santi combattono contro se stessi, diventando dei
virtuosi nelle battaglie contro le sollecitazioni al peccato,
attribuite al Maligno che è in loro.
La posizione di Hobbes è del
tutto diversa: non si tratta per lui di conquistare il paradiso, ma di
primeggiare, in questo mondo, su tutti gli altri partecipanti, in una
gara in cui non esiste né un fine ultimo, né l’elargizione del sommo
bene, ma solo un movimento ininterrotto, paragonato a una «corsa» che
«non abbia altra meta, né altro premio, che l’essere davanti» e in cui
«Guardare quelli che stanno dietro è gloria. / Guardare quelli che
stanno davanti è umiltà. / Il perdere terreno per guardarsi indietro,
vanagloria. Essere superato continuamente è infelicità / Superare
continuamente quelli davanti è felicità. / E abbandonare la pista è
morire».
Non si tratta più, come nella filosofia degli stoici e
degli epicurei, di conseguire la tranquillità dell’animo, di giungere a
posizioni contemplative di equilibrio statico, ma di raggiungere un
piacere e una felicità che nascono da un incessante movimento: nel non
fermarsi mai e nell’avanzare sempre: «La felicità è un continuo
progredire del desiderio da un oggetto a un altro, non essendo il
conseguimento del primo che la via verso quello che viene dopo». O, in
maniera più incisiva, la felicità è «un progredire che incontra un
minimo d’impedimenti al conseguimento di fini sempre più avanzati (ad
fines semper ulteriores minime impedita progressio)».
Giungendo
velocemente all’oggi e trascurando per ovvia brevità molti passaggi
riguardanti gli articolati processi e le molteplici teorie della
conquista del Sé attraverso un severo confronto (si ricordino soltanto
la dialettica di Hegel o la psicoanalisi di Freud), è giusto dire che la
nostra civiltà procede in questo periodo verso l’attenuazione o,
addirittura, verso l’elusione dei conflitti volti a ricomporre la
personalità di ciascuno? E che la corsa, se si affronta, ha per meta,
soprattutto, l’avanzamento di carriera o il benessere?
La recente
insistenza di Hadot sugli «esercizi spirituali», di Foucault sulla «cura
di sé» o di Sloterdijk sull’imperativo «Devi cambiare la tua vita!» non
è, inoltre, l’indice di un’assenza di slanci in direzione di una
maggiore consistenza della soggettività o, per converso, di una minore
capacità di far fronte all’aggravarsi delle situazioni?
La perdita
d’autorità del Super-io (dell’insieme dei valori, comandamenti e
divieti – tramandati e in parte inconsci – che sottopongono l’io al
dominio di un censore interno) appare ora responsabile dell’ipertrofia
di un io diventato fragile, indifeso e spesso narcisistico. La maggiore
indulgenza nella vita familiare, scolastica e sociale, specie verso le
giovani generazioni e il fatto che l’incuria sui tenda a prevalere sulla
cura sui, mostra forse quanto si siano allentati i freni inibitori
dell’autocontrollo teso a una crescita del Sé mediante i conflitti? Si
può allora sostenere che lo scarso impegno e rendimento di molti
studenti nelle nostre scuole rispetto a quelli dei paesi asiatici (Cina,
Giappone, Corea) rappresenti un sintomo di debolezza della nostra
civiltà, un segno di decadenza e di «tramonto dell’Occidente»? Ci siamo
realmente “sdraiati”?
Oppure è vero che possono esistere società
non agonistiche (come quelle studiate da Margaret Mead e Gregory Bateson
nel 1942 a Bali, dove, fin dalla prima giovinezza, ogni contenzioso
veniva risolto da un arbitro esterno)? Forse, in questa fase storica,
crediamo di avere meno bisogno di sforzarci e di ingaggiare una guerra
contro noi stessi perché godiamo, in diversa misura, della maggiore
rendita di posizione accumulata negli ultimi cinque secoli di dominio
del globo, di una maggiore ricchezza e libertà nei confronti di paesi
che devono colmare il divario. Essi devono affermarsi anche attraverso
la forza di volontà, una maggiore applicazione e intensità nello studio e
nel lavoro, in ciò favoriti da tradizioni etiche e ideologie che
subordinano l’individuo alla collettività (come nel caso del
confucianesimo o dei cosiddetti «valori asiatici»). Eppure, nascondendo i
conflitti, gloriandoci pigramente del fatto di essere “liquidi” e
’plasmabili’, indebolendo la lotta per auto-sovvertirci, come potremo
reggere – perfino sul piano culturale – nel mondo globalizzato e nelle
economie di mercato di un non lontano futuro, alla sfida “hobbesiana” di
una concorrenza aggressiva e spietata?