Il Sole 27.9.16
Emergenza migranti
L’Europa si sbriciola e l’Italia paga il conto
Dovunque
frontiere, muri e quote anti-immigrati, che siano siriani, afghani,
polacchi o italiani poco importa. Con il 58% dei consensi il Canton
Ticino domenica ha votato per limitare il flusso dei 62mila lavoratori
transfrontalieri, italiani appunto, e dare la preferenza alla manodopera
residente.
Le sirene del protezionismo dilagano in Europa e
dintorni mentre appare sempre più incontenibile la rivolta degli europei
contro l’immigrazione. Paradossalmente oggi sembra l’unico cemento che
li unisce, pur dividendoli profondamente.
Non è solo questione di
agitatori populisti e xenofobi. La percezione negativa dell’altro, la
paura del diverso, che in più spesso ha la faccia del terrorista
islamico della casa accanto, l’egoismo economico vengono anche
dall’inconscio collettivo di società abituate a una sostanziale
omogeneità corroborata da una rassicurante supremazia culturale
costruita su identità forti, europee e nazionali, e prosperità diffusa.
Tutti
questi punti fermi stanno franando da tempo sotto i colpi della
globalizzazione totalizzante del mondo. Anche negli Stati Uniti. A lungo
i governi hanno risposto minimizzando, salvo ora provare a correre ai
ripari, come sempre in ritardo e sotto il pungolo di cittadini frustrati
e inviperiti (anche se non sempre in modo del tutto lucido e
razionale). Dopo che i buoi sono fuggiti dalle stalle e i sentimenti di
insicurezza sociale, economica, personale sono diventati la realtà
quotidiana prevalente, recuperare il terreno perduto diventa un’impresa
acrobatica dall’esito molto incerto.
In Europa ormai l’opinione
pubblica tende a fare di tutta l’erba un fascio: immigrato è chiunque
sia straniero, che venga da un Paese extra-comunitario o comunitario non
fa differenza. L’ostilità, dicono i sondaggi Ue, supera in media il 60%
ed è in costante aumento. I voti parlano ancora più chiaro.
Una
volta la ricca Svizzera e i suoi sentimenti xenofobi facevano un po’
storia a parte, oggetto anche di indignazione. Oggi invece la si scopre
maestra di vita europea ante litteram.
Il Canton Ticino non è in
emergenza economica né occupazionale, semplicemente paventa
l'“invasione” italiana e di qui l’eccessiva diluizione della propria
identità attraverso l’importazione delle diversità altrui. Voto
sbandato? Tutt’altro. Perfettamente coerente con il referendum elvetico
del 2014 che ha voluto limiti alla libera circolazione dei lavoratori
Ue: contro gli interessi dichiarati dell’industria elvetica e in
plateale contraddizione con le quattro libertà del mercato unico europeo
del quale peraltro la Svizzera, Paese dal virtuale pieno impiego (3,1% i
disoccupati), continua a voler far parte. Trovando scarsa comprensione a
Bruxelles.
La stessa che del resto incontra la Gran Bretagna nel
dopo-Brexit: altro referendum giocato sull’equivoco
identitario-migratorio, dove ancora una volta lo straniero è il
cittadino-lavoratore in arrivo dagli altri Paesi dell’Unione. E ancora
una volta la pretesa è di regolamentarne la mobilità senza però perdere i
vantaggi del mercato unico.
Altra domenica, la prossima, altro
referendum. In Ungheria. Per dire sì o no alle quote obbligatorie per la
spartizione dei migranti in senso proprio, rifugiati per intendersi,
senza il consenso preventivo del parlamento magiaro. Il no è dato
vincente. Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia sono sulle stesse
posizioni per ragioni che, al fondo, non sono molto lontane da quelle
dei Paesi Ue più affluenti.
Dall’Austria alla Danimarca, Svezia e
Finlandia passando dalla stessa Germania, Angela Merkel a parte, chi più
chi meno tutti cercano sicurezza nelle quote e dentro i patrii confini,
in nome di variegate e spesso inconfessate pulsioni
nazional-identitarie molto più che economiche, di fronte a flussi che
minacciano di destabilizzare modelli di sviluppo ma soprattutto
equilibri consolidati di società disorientate.
L’Europa si
sbriciola così nel labirinto delle piccole e grandi fortezze nazionali
in costruzione che serviranno a ben poco, perché il problema è globale e
richiede almeno un governo europeo. Ma le elezioni in Olanda, Francia e
Germania nel 2017 non sono tempi propizi. E si vede.
Le chiusure
del Nord mettono però alle corde il Sud Europa. Tra blocco della rotta
balcanica e accordo con la Turchia, le porte di Grecia e Bulgaria sono
quasi sbarrate. Da Egitto e Libia la pressione si scarica tutta
sull’Italia a ritmi alla lunga insostenibili. Anche se si farà senza
Matteo Renzi, domani il vertice franco-tedesco di Berlino allargato al
presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, sbaglierebbe a non
tenerne conto.
La Merkel ieri ha parlato di accordi “alla turca”
da firmare con Tunisia ed Egitto, di aiuti allo sviluppo per sradicare
le cause delle migrazioni e di lotta senza quartiere agli arrivi
illegali. L’approccio è ragionevole ma le decisioni concrete non devono
tardare. In dicembre c’è un referendum anche in Italia. Oggi
temporeggiare equivale a destabilizzare: non è nell’interesse di
nessuno.