Il Sole 18.9.16
Perché solo la crescita può ridurre il debito
di Luca Ricolfi
Una
delle tante cose che non ho mai capito, parlando di Europa, è perché i
Trattati siano (e soprattutto permangano) così severi sul deficit
pubblico, che mai e poi mai dovrebbe superare la fatidica soglia del 3%
del Pil, e siano così indulgenti sul debito, cui senza molta convinzione
(ovvero senza sanzioni) si richiede soltanto di restare, o più o meno
lentamente tornare, al di sotto del 60% del Pil. Se lo scopo principale
di queste due regole è evitare che uno Stato indebitato non riesca più
ad approvigionarsi sui mercati finanziari in quanto gli investitori
hanno perso fiducia nella sua capacità di ripagare i debiti, allora non
sarebbe male chiedersi anche: ma i mercati si preoccupano di più del
deficit o del debito?
Ebbene, da parecchi anni la risposta a
questa domanda è piuttosto netta: l'analisi statistica mostra che,
almeno nell'area euro, il premio al rischio richiesto dai mercati (in
buona sostanza: lo spread sui titoli pubblici decennali), è molto
sensibile al rapporto debito/Pil ma lo è pochissimo al deficit (un punto
documentato nel Dossier sui conti pubblici, a cura della Fondazione
Hume, che il lettore trova in questa pagina). In breve: se uno Stato
vuole raccogliere prestiti a buon mercato, molto dovrebbe preoccuparsi
del livello del proprio debito, e assai meno di quello del deficit.
L'esatto contrario di quel che suggeriscono le regole europee, severe
sul deficit ma permissive sul debito.
Vista da questa angolatura,
ben si comprende la linea del nostro governo, che al momento di
impostare la politica di bilancio per il 2016, ha chiesto sconti
politici sul deficit (concessi), impegnandosi al contempo a far
finalmente scendere il rapporto debito/Pil, che l'anno scorso aveva
toccato il massimo storico dalla fine della seconda guerra mondiale. Se
quel che inquieta i mercati è il debito e non il deficit, è più che
razionale puntare sulla riduzione del debito e mettere in secondo piano
il livello del deficit.
L'impegno a ridurre il rapporto debito/Pil
del 2016 è stato ribadito in varie occasioni pubbliche, anche recenti.
Eppure, da almeno sei mesi è piuttosto chiaro che quell'impegno non
potrà essere mantenuto. Vediamo perché.
La previsione governativa
di una riduzione del rapporto debito-Pil poggiava su tre pilastri: uno
sforzo di contenimento del tasso di crescita dell'ammontare nominale del
debito; una inflazione dell'1%; una previsione di crescita del Pil
dell'1.5% in termini reali.
Sul primo versante le cose non sono
andate affatto male: la velocità di crescita del debito nominale durante
gli anni della crisi è rimasta perlopiù in prossimità del 4%, nel 2015 è
scesa al 2.4%, nei primi 7 mesi del 2016 è scesa ancora, portandosi
intorno all'1.7%. Fin qui tutto bene.
I problemi cominciano quando
dal numeratore (il debito nominale) si passa al denominatore (il Pil
nominale). Qui le cose vanno decisamente male, e non da oggi. E' almeno
dai primi mesi dell'anno che sappiamo due cose: primo, nonostante gli
incentivi governativi il Pil reale del 2016 non crescerà dell'1.5% come
ipotizzato dal governo; secondo, nonostante gli stimoli della Banca
Centrale Europea (Quantitative Easing) l'inflazione 2016 non si
avvicinerà in modo apprezzabile all'obiettivo del 2% (auspicato dalle
autorità monetarie), ma neppure a quello più modesto dell'1% ipotizzato
dal governo.
Tutto ciò, in concreto, significa che con ogni
probabilità quest'anno il Pil nominale crescerà meno dell'1%, ossia di
meno del tasso di crescita del debito nominale, che ha sì rallentato la
sua corsa rispetto al passato, ma negli ultimi mesi è tornato ad
accelerare (a giugno-luglio il debito è cresciuto del 2.2% rispetto a un
anno prima). E se il Pil nominale cresce di meno del debito, è
matematico che il rapporto debito/Pil aumenti, quest'anno esattamente
come negli anni scorsi.
Nella sua semplicità, l'aritmetica del
rapporto debito/Pil ci mostra in tutta chiarezza il nucleo del problema
italiano: il Pil in termini reali cresce di meno, molto di meno di
quanto, anche a causa della flessione dei prezzi, cresca il debito in
termini reali. Giusto per dare un ordine di grandezza, l'ultima
variazione tendenziale del debito pubblico in termini reali segna +2.4,
l'ultima variazione tendenziale del Pil segna + 0.8%. E' come dire che
facciamo debiti a un ritmo triplo rispetto a quello con cui crescono le
nostre risorse: l'incremento del Pil è sistematicamente al di sotto di
quello che occorrerebbe per frenare l'aumento del rapporto debito/Pil.
E, quel che è più grave, la nostra crescita asfittica non è spiegabile
con il rallentamento dell'economia europea, perché la stragrande
maggioranza dei paesi dell'Unione crescono più di noi, oggi come ieri.
A
quanto pare, la riduzione del rapporto debito/Pil, più che un'utopia o
una chimera, è una fatica di Sisisfo. Sappiamo che dobbiamo raffreddare
la crescita del debito, e ci stiamo persino riuscendo (vedi il grafico
in alto). Ma, appena freniamo la corsa del numeratore (il debito in
termini reali), dobbiamo constatare che il denominatore (il Pil) frena
ancora di più. A quel punto ci convinciamo che, per far crescere il Pil,
dobbiamo stimolare l'economia, facendo più deficit e rimandando gli
obiettivi di risanamento dei conti pubblici. La Commissione europea ci
dà il permesso di sforare un po', il Pil ringrazia dello stimolo
ricevuto, ma non accelera abbastanza da colmare la voragine che, proprio
per rianimarlo, è stata aperta nei conti pubblici. E così, di anno in
anno, di Legge di stabilità in Legge di stabilità, possiamo andare
avanti all'infinito. Perché nessuno, ma proprio nessuno, pare avere
un'idea praticabile, e per “praticabile” intendo economicamente e
politicamente praticabile, per liberare Sisifo dalla pena cui è
condannato per l'eternità.