Il Sole 11.9.16
Le élite del No e il futuro dell’Italia
di Sergio Fabbrini
Era
necessario che il premier Renzi si auto-criticasse per aver
personalizzato il referendum sulla riforma costituzionale. Necessario ma
non sufficiente. Infatti, la discussione e la battaglia sulla riforma
costituzionale si svolgeranno nel merito della proposta solamente se
anche gli altri leader politici eviteranno di personalizzare quel
referendum.
Ma così non è. Probabilmente, ciò è dovuto
all’istituto del referendum in quanto strumento di democrazia diretta.
Il referendum è come un’anguilla. Anche il più esperto pescatore non
riesce a trattenerla nelle mani. C’è nel referendum una logica
intrinseca alla politicizzazione intesa come personalizzazione.
Contrariamente a ciò che viene sostenuto da più parti, il referendum non
è lo strumento per far emergere il volere del popolo, inteso come
un’entità unitaria, distinto da quella delle élite politiche. Al
contrario, il referendum si è dimostrato regolarmente lo strumento per
avviare un regolamento di conti all’interno delle élite stesse. L’idea
che ci sia un popolo che, attraverso il referendum, può finalmente
esprimersi contro le élite è tanto ingenua quanto infondata. Lo stesso
concetto di populismo, se utilizzato come un “passe-partout” per
spiegare il malessere dei cittadini, crea più confusione che
consapevolezza. La politica è sempre uno scontro tra élite, mai tra il
popolo e queste ultime. Non ci sarebbe il populismo senza élite capaci
di mobilitare i sentimenti di insoddisfazione diffusi in larga parte del
popolo. Sono dunque le élite a essere responsabili di un esito politico
o di un altro. Non il popolo.
Il voto a favore della Brexit, nel
referendum britannico del 23 giugno scorso, non è stato l’espressione di
una ribellione popolare nei confronti delle tecnocrazie di Bruxelles,
ma un vero e proprio regolamento di conti all’interno del partito
conservatore (in particolare tra Boris Johnson e David Cameron), oltre
che tra una élite sovranista esterna ai partiti (rappresentata da Nigel
Farage) e le leadership ufficiali dei maggiori partiti. Il voto contro
il Trattato Costituzionale dell’Unione Europea, nel referendum francese
del 29 maggio 2005, non fu l’espressione del malessere dei francesi
contro la visione sovranazionale europea, bensì l’occasione per regolare
i conti all’interno del partito gollista (del presidente allora in
carica Jacques Chirac) oltre che all’interno del partito
dell’opposizione (tra Francois Hollande and Laurent Fabius). La stessa
logica si è manifestata nel referendum olandese del 1 giugno 2005,
sempre sul Trattato Costituzionale dell’Ue, quando la contrapposizione
ha seguito quasi-linearmente la divisione tra la coalizione di governo
(a favore del Sì) e i partiti dell’opposizione (schierati per il No).
Una logica simile si è manifestata nei referendum irlandesi sul Trattato
di Lisbona, del 12 giugno 2008 (in cui il Trattato fu bocciato) e del 2
ottobre 2009 (in cui lo stesso Trattato fu invece approvato),
referendum utilizzati da leader politici esterni al governo per mettere
in difficoltà quest’ultimo. Potrei continuare.
Queste esperienze
referendarie hanno in comune due aspetti. Primo, il referendum è
diventato un sostituto delle elezioni politiche generali o delle stesse
primarie di partito per definire i rapporti di forza tra gruppi di élite
politiche o tra i loro leader. Secondo, il referendum, proprio per la
sua natura binaria (Sì o No relativamente a una data proposta), consente
a élite negative di avere un vantaggio posizionale rispetto alle élite
positive. È molto più facile fare una campagna contro, che farla a
favore. Tanto è vero che quando le élite negative vincono, e quasi
sempre vincono nelle arene referendarie, il risultato è lo stallo se non
la confusione. Brexit ha vinto, ma nessun sa nel Regno Unito come
realizzare l’uscita del Paese dall’Ue. La bocciatura del Trattato
Costituzionale ha vinto a Parigi e a L’Aia, ma il risultato è stato la
paralisi dell’Ue che ancora non è stata risolta. Per quanto riguarda gli
irlandesi, hanno dovuto smentire sé stessi per non rimanere esclusi dal
processo di integrazione. Insomma, il referendum deresponsabilizza gli
oppositori, che possono mobilitarsi per fare votare contro la proposta
in discussione, senza essere obbligati a precisare con che cosa la
sostituirebbero. Un esempio, per dirla con Francois Furet, di
opposizione parassitaria.
Naturalmente, dietro i successi delle
élite negative vi erano condizioni sociali ed economiche di malessere e
insoddisfazione, ovvero disorientamenti culturali dei cittadini
sull’identità del proprio Paese o del proprio gruppo. Ma quelle
condizioni e stati d’animo possono essere rappresentati in modi diversi.
In una democrazia rappresentativa, attraverso programmi realizzabili,
anche se radicali. Le élite negative, invece, si limitano a utilizzare
il semplicismo della democrazia diretta per mettere in difficoltà o per
delegittimare chi governa. E nel fare questo, per loro, la coerenza non
ha importanza. Succede così di vedere che, nel referendum costituzionale
italiano, tra i leader che vogliono bocciare il progetto vi sono un
ex-presidente di una commissione bicamerale che aveva approvato un
progetto di riforma costituzionale molto più audace e sistemico di
quello oggetto di votazione. Oppure un ex-ministro delle riforme
istituzionali che ha presieduto una commissione di studio da cui il
progetto Renzi-Boschi deriva, al punto da averlo votato più volte in
Parlamento (durante le tre fasi costituzionalmente richieste per
l’approvazione). Anche qui, potrei continuare. In tutti questi casi, le
élite negative non hanno la preoccupazione di precisare cosa
succederebbe in caso di una loro vittoria, qual è il loro progetto
alternativo, quali le possibilità di realizzarlo. La logica referendaria
non lo richiede. La rivalità che li anima glielo proibisce. Il punto è
usare il referendum per portare avanti una guerra di liberazione contro
il nemico.
Se è stato necessario che Renzi smettesse di parlare
del suo futuro, ciò non sarà sufficiente se le componenti più
responsabili delle élite politiche italiane non si mobiliteranno per
fare del referendum un’occasione di educazione pubblica e non già di
regolamento dei conti tra governo e opposizione. Il futuro di un Paese
dipende dalla qualità delle sue élite. È stata l’irresponsabilità delle
élite argentine che ha portato quel Paese, ricco di risorse, a un
declino economico e politico quasi-irreversibile. È la faziosità delle
élite politiche statunitensi che sta portando quel Paese a una paralisi
politica che ricorda il dramma della Guerra Civile. Nessun Paese ha, per
dono naturale o divino, delle élite politiche responsabili. La
responsabilità delle élite politiche è un bene pubblico che va
perseguito senza ambiguità. Ad esempio, non smettendo mai di ricordare a
chi governa e a chi si oppone che, nel referendum costituzionale del
prossimo autunno, vi saranno in gioco gli interessi del Paese e già non
il destino personale di alcune élite.