il manifesto 8.9.16
Turchia
Il golpe ha distrutto l’opposizione laica e repubblicana
Turchia
post-golpe. L’ultimo dei perdenti in questo caos è l’Hdp come fautore
di pace, completamente escluso dall’arena politica e costretto a
sopravvivere in purgatorio, tra un riconsolidato regime militarista e le
forze armate kurde, su entrambi i lati del confine turco-siriano
di Murad Akincilar
L’autore è il direttore del Diyarbakir Institute for Political and Social Research
Il
28 febbraio 1997 il cosiddetto governo islamista-liberale venne
rovesciato a seguito di una campagna di minaccia militare che bloccò
l’attività parlamentare e mobilitò l’opposizione laica e nazionalista,
compresi sindacati e gruppi di sinistra. Si trattò di un collasso
non-elettorale di una coalizione tradizionalista-liberale che aprì la
strada ad un potere «musulmano moderato» a favore della globalizzazione
economica. «Colpo di Stato post-moderno»: questa fu la diagnosi
dell’intelligentia turca.
Il 15 luglio 2016 uno dei ponti più
frequentati al mondo in una delle città più popolate al mondo viene
chiuso da un piccolo gruppo di soldati a piedi; seguono ore di trambusto
al tramonto, concluse dal linciaggio di una folla contraria. Un aereo
da guerra vola a bassa quota, facendo acrobazie nel cielo della capitale
culturale turca. I soldati provano a prendere il controllo delle sedi
della tv e della radio di stato, mentre la Cnn turca manda in onda
l’appello del presidente della repubblica ai cittadini perché resistano.
L’intelligentia
turca sta ancora dibattendo: si è trattato di un golpe pre-moderno o
post-moderno? La tragedia è che entrambi sono stati veri colpi di stato.
Entrambi sono stati accolti dall’amministrazione statunitense ed
entrambi si sono conclusi con un nuovo equilibrio diplomatico e
strategico con le forze globali.
I kurdi in Turchia hanno saputo
in seguito che il comandante in capo della «seconda armata», il generale
Adem Huduti, quello che ha ordinato il bombardamento della città
vecchia di Sur a Diyarbakir, di Yüksekova e di Cizre, era parte del
golpe ed è stato per questo arrestato. Così, qui a Diyarbakir, ci
chiediamo ancora chi sia il responsabile dell’incommensurabile
distruzione delle nostre città. Per questo i kurdi hanno esitato, non
sapendo che approccio avere nei confronti delle conseguenze del fallito
golpe.
Dovrebbe questa diabolica esperienza costringere l’élite
politica a riconsiderare il conflitto? Possiamo aspettarci che questo
golpe – contro tutti i partiti presenti in parlamento, compreso l’Hdp –
sia una lezione di saggezza? Sfortunatamente no. Due dati in particolare
possono aiutarci a capire perché non abbiamo diritto ad esprimere un
limitato ottimismo. Quarantuno accademici progressisti, tra coloro che
firmarono una dichiarazione in favore di una soluzione pacifica della
questione kurda, sono stati cacciati pochi giorni fa con l’accusa di
essere gulenisti. Un numero che supera di gran lunga il numero di
miliziani dell’Isis arrestati in Turchia. E come non mettere a confronto
un membro dell’Isis ferito durante l’operazione militare dell’esercito
turco nel nord della Siria con le centinaia di combattenti delle Ypg e
Ypj uccisi e torturati?
Ventiquattro soldati sono stati uccisi in
scontri con il Pkk in 48 ore, lo scorso fine settimana, ma nessuno dei
cinque quotidiani turchi più diffusi ha riportato la notizia in prima
pagina. Negli ultimi 30 giorni 37 bambini sono stati uccisi in scontri e
raid aerei nelle città kurde e nessun commentatore politico ne ha
parlato.
Nemmeno come «effetto collaterale». La pulizia dei
sostenitori di Gulen nell’esercito e nelle forze di polizia avrebbe
potuto creare il terreno fertile per una nuova soluzione politica della
causa kurda visto che le forze armate hanno rappresentato il vero nemico
dei politici kurdi, dei sindaci eletti e della popolazione civile. Ma
ancora una volta l’occasione è stata persa. Dopotutto sono gli stessi
che avrebbero dovuto giudicare i golpisti nazionalisti di Ergenekon tra
il 2009 e il 2015: oggi sono tutti liberi e legittimati.
La
ragione sta nella divisione in due gruppi delle forze militariste
anti-kurde: la maggioranza collabora apertamente con l’Akp, una
minoranza perdente collaborava con i gulenisti. Entrambi i gruppi
operano, secondo la loro logica, per la sopravvivenza dello stato.
Personalmente
ritengo che la capacità della leadership dell’Akp di riorientare il
corso degli eventi nei giorni successivi al golpe ha portato ad un
indebolimento del mito dell’«Islam moderato alla Erdogan» come presunto
ponte culturale tra la tradizione conservatrice e nazionalista e i
valori universali democratici. Ha anche distrutto per sempre la
potenziale opposizione di tradizione repubblicana e laica alla sovranità
dell’Akp perché quell’opposizione non ha mostrato alcun segno di
resistenza né al golpe né alla guerra lampo anti-kurda.
E infine
l’ultimo dei perdenti in questo caos è l’Hdp come fautore di pace,
completamente escluso dall’arena politica e costretto a sopravvivere in
purgatorio, tra un riconsolidato regime militarista e le forze armate
kurde, su entrambi i lati del confine turco-siriano.