il manifesto 6.9.16
Sulle orme di Gramsci
Viaggio nei
luoghi della Sardegna rurale, nell’altipiano Barigàdu, tra Macomer e
Sassari, dove corre il fiume Tirso, in cui è nato e in parte vissuto
Antonio Gramsci, prima di «emigrare» a Torino per iscriversi
all’università. L’occasione sono i cinque giorni della «scuola
internazionale di studi gramsciani» che si svolge fino al 10 settembre
nella casa-museo di Ghilarza con studiosi provenienti da tutto il mondo
di Angelo Ferracuti
GHILARZA
(ORISTANO) Il treno locale veloce da Cagliari parte in direzione
Sassari quando Alessandra Marchi inizia a raccontarmi dei suoi studi,
dei tanti viaggi fatti in Egitto, e delle ricerche sulla stampa politica
italiana tra il Cairo e Alessandria, la vita precaria di una giovane
studiosa costretta a fare i conti con la difficoltà di sbarcare il
lunario. Sguardo intenso, capelli lunghi castani, spiega orgogliosa il
lavoro svolto negli ultimi anni alla Casa-museo Antonio Gramsci di
Ghilarza, dove mi sta accompagnando.
Di questi luoghi dove non
sono mai stato, conservo però nella memoria le immagini di Mario
Dondero, i murales coloratissimi che raffigurano il fondatore de L’Unità
in una Sardegna interna, quella bellissima degli occhiali fossili
conservati in una custodia di cuoio rigido e logora, gli stessi con i
quali di carcere in carcere Antonio ha potuto leggere e scrivere le
Lettere e i Quaderni.
Alessandra sta andando da quelle parti
perché si terrà il Ghilarza Summer School (da ieri al 10 settembre), la
scuola internazionale di studi gramsciani che vede la partecipazione di
studiosi da tutto il mondo. Sì, perché il pensiero del terzo
intellettuale più studiato all’estero dopo Dante e Machiavelli (quella
che lei chiama «eredità complicata») è più vivo che mai: «Arrivano da
noi ricercatori dal Giappone, dalla Corea, ma è il Brasile il paese che
più lo studia a livello accademico, attraverso uno dei suoi più
importanti esperti, Carlos Nelson Coutinho, e numerosi dipartimenti e
corsi di studio nelle università latinoamericane», continua a
raccontarmi Alessandra; «pensa», dice, «in Egitto è stata fatta persino
una lettura dei Fratelli musulmani in chiave gramsciana». Lungometraggi
in lavorazione, docufilm come Gramsci 44 (regia di Emiliano Barbucci)
che ricostruisce i giorni del confino di Ustica, persino un monumento
temporaneo nel Bronx a opera dell’artista americano Thomas Hirschhorn,
il Gramsci monument, il quarto dopo gli omaggi a Spinoza, Bataille e
Deleuze.
Scesi alla piccola stazione di Abbasanta, disabitata e
malmessa, fuori ci aspetta in auto il vice-presidente dell’«Associazione
Casa museo Antonio Gramsci» Gianluigi Deiana, professore di storia e
filosofia nei licei in pensione con una barba bianca folta e l’aria da
vecchio militante. Indossa una maglietta nera, dove c’è scritto: «acqua
ai popoli, vino a chi lotta», ed è un burbero benefico. Il paese è
piccolo, quattromila abitanti, il più importante di quelli che si
trovano nell’altipiano Barigàdu, tra Macomer e Sassari, dove corre il
fiume Tirso, il lago artificiale, e ospita una suggestivo paesaggio di
roccia e macchia mediterranea che ho potuto vedere insieme a lui da un
affaccio ad Ardauli, dove vive. Anche Gramsci amava questo paesaggio:
«Come mi piaceva, da ragazzo, la valle del Tirso sotto San Serafino!
Stavo ore e ore seduto ad ammirare quella specie di lago che il fiume
formava proprio sotto la chiesa, per il nesserzu costruito più a valle, a
vedere le gallinelle che uscivano dai canneti tutto intorno a nuotare
verso il centro, e i salti dei pesci che cacciavano le zanzare».
Entrando,
appena varcata la soglia della casa lungo il corso Umberto, in basalto
come tutte quelle del paese nel centro storico di Ghilarza, che prosegue
dalla piazzetta che porta il suo nome, motivo di una polemica
alimentata dai notabili democristiani all’epoca dell’intitolazione,
sulla destra ci s’imbatte con l’immagine icona che di Gramsci si è
fissata nell’immaginario di più generazioni di militanti politici. Il
primo colpo d’occhio, infatti, coglie il ritratto in bianco e nero che
copre quasi un’intera parete. È scura, mostra un giovane dai capelli
alti, folti e neri, gli occhialini ovali senza bacchette, le spesse
sopracciglia, il viso largo e le labbra scurite.
Torna in mente
una ballata triste del 1973 di un maestro della canzone d’autore,
Claudio Lolli, Quello lì (compagno Gramsci), che lo coglie appena
arrivato nella Torino operaia nell’autunno del 1911: «Il giorno che
arrivò in città fresco dalla Sardegna, per fare l’università/ c’aveva
già lui la faccia di chi c’insegna, aveva già/ la sua strana testa
grossa e l’aria di uno che ha freddo fin/ nelle ossa. /Io lo sapevo
quello lì, me lo sentivo quello lì, che non sarebbe/ andato avanti
molto». Lolli restituisce il destino tragico che segnerà tutta la vita
del rivoluzionario italiano personificazione e studioso della postura e
del ruolo dell’intellettuale nella società, una figura estinta, messa in
prescrizione dall’Epoca, così come in Italia è stato dimenticato il suo
pensiero da una sinistra che ha abdicato al suo ruolo storico o è
diventata testimonianza. Gianluigi mi spiega che il rischio è che la
casa da poco diventata monumento nazionale può essere quello della
«monumentalizzazione», che neutralizzerebbe la figura radicale del
pensatore comunista. La Fondazione Berlinguer, proprietaria
dell’immobile, vorrebbe rilanciare il museo tramite una Fondazione, però
non si capisce come. «Ma al di là dalle scelte che faranno,
l’Associazione continuerà la sua attività» dice, «a cominciare dall’idea
di strutturare una Università popolare da fare con altre associazioni
gramsciane».
In questa che è solo una casa della memoria, Nino ci
arriva a sei anni nel 1898, è un bambino tarmato dal morbo di Pott che
tortura la sua schiena, intelligente e vivace. Qui una madre emancipata e
colta, «vestita all’europea», Peppina, che troverà posto in paese come
ufficiale postale, si prenderà cura dei suoi sette figli dopo che il
marito Antonio, figlio di un colonnello della gendarmeria borbonica di
origini albanesi impiegato all’ufficio del registro, è stato processato
per ammanchi contabili. Nino legge molto, a scuola ottiene sempre il
massimo dei voti, ma per via delle condizioni della sua famiglia è
costretto a lavorare nell’ufficio del Catasto: «(…) l’istinto di
ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare
a studiare io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole
elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista del
negoziante di tessuti …», dirà di quegli anni.
Superato
l’ingresso, sulla destra si accede proprio allo studio del capo
famiglia, «la camera buona», dove una scrivania dell’epoca è al centro
della stanza, e di fronte è riprodotta in un pannello in plexigas una
delle struggenti lettere scritte dal carcere da Antonio alla madre,
sull’altra parete il ritratto su sfondo rosso del pittore George de
Canino. La lettera è del 10 maggio 1928: «La vita è così, molto dura e i
figli qualche volta devono dare dei dispiaceri alle loro mamme, se
vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini» (…),
rivela sia lo scopo storico e politico della testimonianza che la sua
grande umanità. Uscendo si accede alla cucina con il soffitto a
cannitzada e fuori c’è il piccolo cortile.
Al piano superiore
contenitori con oggetti, fotografie, ritagli di giornale, i piccoli
utensili utilizzati in carcere, il tabacco e i cerini, le immagini delle
manifestazioni guidate dagli intellettuali europei per chiedere la sua
liberazione, naturalmente gli occhiali e altri oggetti molto preziosi
per chi come me (sono 3000 ogni anno) viene qui a fare il suo
pellegrinaggio laico, la cassaforte dell’Ordine nuovo e il calco della
maschera funebre, quello di un uomo di 45 anni precocemente invecchiato,
prostrato dalla reclusione, dall’ipertensione e dalla gotta.
Nell’ultima parte una camera da letto, arredata filologicamente con il
mobilio dell’epoca.
Negli anni sardi e in questa casa della
formazione, così come la ricostruisce Giuseppe Fiori in Vita di Antonio
Gramsci (Illiso), ancor prima di aprirsi al «mondo grande e terribile»
della seconda vita nella capitale industriale del Nord di Torino, e
finire i suoi giorni nella claustrofobia carceraria del confino, qui
nasce la sua passione politica; in una Sardegna agitata dai battellieri
di Carloforte guidati da Cavallera e dai minatori ribelli del Sulcis,
dentro il terreno di cultura del socialismo dove nasceva un grande
movimento operaio del Meridione, ma anche l’amore per la Storia. Come
scrive a suo figlio Delio in una delle ultime Lettere: «io penso che la
storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché
riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti
più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono
tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può
non piacerti più di ogni altra cosa».