il manifesto 29.9.16
Dove finisce la repubblica fondata sul lavoro
La
legge Renzi-Boschi di revisione costituzionale sposta il potere
legislativo dal parlamento al governo. E i lavoratori ne subiscono le
conseguenze più pesanti
di Mario Agostinelli, Bruno Ravasio
La
Cgil invita a votare No al referendum perché la legge Renzi-Boschi
“introduce, senza migliorare la governabilità né il processo
democratico, un rischio di concentrazione dei poteri e delle decisioni:
dal Parlamento al Governo, dalle Regioni allo Stato Centrale”.
Una
posizione, quella della Cgil, coerente con la sua storia e le sue
battaglie, fin dalla proposta di Statuto dei Lavoratori motivata da Di
Vittorio nel congresso del 1952 con la necessità di “una legge per
portare la Costituzione nei luoghi di lavoro”. E tuttavia, forse a causa
della decisione di non impegnarsi direttamente nella campagna
referendaria, anche l’ordine del giorno dell’assemblea generale della
Cgil rischia di lasciare in ombra le conseguenze dirette della revisione
costituzionale proprio sulla efficacia dell’azione sindacale.
Se
contestualizziamo l’attacco alla Costituzione all’interno di un
conflitto organico, di portata non banalmente “cosmetica” o
“revisionista” sotto il puro profilo dell’efficienza – come si tende da
troppe parti ad avallare, si capisce meglio la premura con cui auspicano
– a ogni cader di foglia – la prevalenza dei Sì i grandi fondi
multinazionali, i gruppi finanziari e le banche mondiali, gli
ambasciatori più conservatori, i governi che hanno schiantato con
l’austherity la Grecia di Tsipras e l’Europa sociale.
Travolti dal
diluvio intricato di modifiche e di capoversi prolissi in cui ci si
confonde, la questione che viene elusa è cosa rimarrà effettivamente
della democrazia sociale con cui i costituenti hanno cancellato il
ventennio fascista e che la sinistra e il sindacato hanno praticato per
realizzare nel nostro Paese un livello di partecipazione civile prima
sconosciuto.
La nostra lunga esperienza nella Cgil, tra scioperi,
assemblee e vertenze, ci ha insegnato come e quanto l’asimmetria nel
rapporto di lavoro si potesse recuperare solo quando il pluralismo
sociale risultava legittimato nel Parlamento, con intatti poteri di
rappresentanza e con una dialettica tra principi di democrazia formale e
sostanziale su cui è stata impostata la Repubblica fondata “sul lavoro”
contro il primato dell’impresa. Tutta la rete di rapporti istituzionali
collegati al popolo, tramite Assemblee che, dal territorio al centro
dello stato, operavano da ponte rispetto alla base sindacale e sociale,
creava lo spazio per i diritti del lavoro, che, verrebbero travolti in
assenza di poteri riconosciuti. Quante volte le vertenze più dure, i
contratti più combattuti, i diritti più innovativi non si risolvevano
solo nei rapporti di forza entro i luoghi di lavoro , ma esondavano da
essi e rimbalzavano nelle interrogazioni di senatori e deputati, nelle
commissioni parlamentari, nel coinvolgimento del Governo che ne doveva
rispondere, di qualunque colore fosse, all’assemblea degli eletti e,
“giù per li rami” ai consigli regionali e comunali dove assistevano
lavoratrici e lavoratori in carne e ossa.
A poco vale mantenere
inalterata la Prima Parte, se nella Seconda viene organicamente previsto
il superamento del “governo parlamentare” a sovranità popolare, per
approdare – con l’ulteriore suggello dell’Italicum – ad un “governo dei
designati” che predomina sull’attività di Camera e Senato. E non a caso
dopo che la Prima Parte era già stata lesa con la cancellazione – con
voto di fiducia – dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che
aveva rappresentato appunto l’ingresso della Costituzione “al di là dei
cancelli aziendali”
Ragioniamo sul testo della revisione. Forse è
sfuggito a molti il significato della costituzionalizzazione del primato
del Governo sul Parlamento nel definire l’o.d.g. e la via preferenziale
delle leggi che attuano il suo programma. Paradossalmente, per l’intera
legislatura si potrebbe legiferare solo su iniziativa del Governo. Ma
se un “governo del capo”, predomina sul Parlamento e, quindi, sulla
rappresentanza dell’intera società è il lavoro che ne subisce le
conseguenze più pesanti, dato che l’efficacia delle lotte sindacali e la
dialettica democratica si esplica solo se c’è rappresentatività delle
organizzazioni che le dispongono in luoghi che mantengono il loro
potere.
Due i punti chiave che contestiamo. 1) Lo spostamento del
potere legislativo in capo al Governo, inserito di soppiatto nella
“revisione costituzionale”, nel rigo 27 dell’art. 12, dove si assegna al
governo il potere di chiedere all’organo del “monocameralismo”, cioè
alla Camera, di deliberare che “un disegno di legge, indicato come
essenziale per l’attuazione del programma di governo, sia iscritto con
priorità all’o.d.g. e sottoposto alla votazione finale del Parlamento
entro 60 giorni dalla richiesta”. In questo modo viene introdotta
l’alterazione della forma di governo parlamentare, rendendo il governo
padrone dei lavori dell’assemblea, anche a discapito del ruolo dei
partiti. 2) La sudditanza del Parlamento rispetto al Governo incide
anche sul diritto di pace, essenziale per una democrazia sociale. Il
nuovo articolo 78 prevede che “La Camera dei deputati delibera a
maggioranza assoluta lo stato di guerra per conferire al Governo i
poteri necessari. Con i premi di maggioranza e le designazioni si
aprirebbe la strada al diritto di guerra come esclusiva del governo.
Questi
aspetti così centrali sono quasi unanimemente oscurati nel dibattito in
corso e a queste riflessioni occorre conquistare giovani, lavoratrici e
lavoratori, cittadine e cittadini che aspirano ad un futuro di
giustizia.