il manifesto 15.9.16
Festival filosofia
L’agone del pensiero critico
Anticipiamo
stralci della relazione che il filosofo francese terrà all’annuale
appuntamento di Modena, Carpi e Sassuolo. Quest’anno il tema scelto è
l’«agonismo»
di Jean-Luc Nancy
Perché oggi si
parla tanto spesso di «pensiero critico»? Con questo nome si vuole
indicare un pensiero che si sottrae al presunto «pensiero unico», a una
dimensione, non contestabile. Ma questo pensiero, che viene accusato di
imporsi abusivamente come la via unica della globalizzazione della
libera concorrenza – generando discriminazioni ovunque, con le sue
appropriazioni senza controllo – questo pensiero e tutto il sistema
tecnico-economico che lo sostiene si è dispiegato a partire dal venir
meno di una lunga serie di pensieri critici (o «alternativi», come si è
cominciato a chiamarli). Si deve dunque ritrovare una capacità critica
che sarebbe andata perduta per sbaglio? Ma resterebbe ancora da capire
perché e come questa perdita sia avvenuta.
La critica discerne,
distingue e consente di suddividere gli oggetti di pensiero in
ricevibili e non-ricevibili. Alcune grandi tappe segnano la storia
filosofica di questo concetto. Immanuel Kant distingue i fenomeni
(costruiti da operazioni dell’intelletto congiunte ai dati della
sensibilità) dalle rappresentazioni della realtà in sé, che non sono
sottoposte a questa costruzione. Marx distingue la sequenza di
produzione, scambio e appropriazione secondo i momenti dell’idea
hegeliana dalla stessa sequenza secondo le condizioni reali, in un dato
momento storico, della proprietà dei mezzi di produzione. Se c’è per
Husserl una «crisi delle scienze europee» è perché le scienze non
possono più pretendere di indicarci il «senso dell’esistenza», che va
dunque distinto dalla loro scientificità. Con la Critica della ragione
dialettica, Jean-Paul Sartre vuole distinguere, rispetto alla
razionalità delle scienze, una «ragione nuova», aperta alla
«comprensione dell’uomo da parte dell’uomo». Infine, per tutta la durata
di questa lunga sequenza e dal XVII secolo, la critica letteraria e
artistica distingue tra opere conformi a programmi già classificati e
opere che creano una forma inedita, forse mal identificabile, ma
riconoscibile come dotata di virtù estetica.
Ciascuno di questi
orientamenti critici implica il ricorso a un criterio o a un sistema
criteriologico. La sperimentazione scientifica è definita dalla misura,
il valore del prodotto dalla relazione col suo produttore, la virtù
estetica dalla messa in opera di una certa idea di bello o di sublime.
Ciascuno di questi criteri chiama in causa a sua volta una definizione
preliminare: la misura e il suo calcolo, il valore dell’uomo in quanto
produttore della propria esistenza, il bello o il sublime definiti – per
esempio – dal lato dell’armonia oppure da quello dell’irregolarità.
In
un certo senso Kant, Marx, Husserl e tutti i grandi critici sapevano da
sempre che il loro criterio o la loro criteriologia implicita erano un
impossibile (l’incondizionato, l’uomo totale, il logos). Spetta a noi
decidere di esporci ad esso, piuttosto che «capirlo» di nuovo.
Esporci
ad esso presuppone di opporsi al possibile e opporsi richiede lo
scontro e il combattimento. C’è dunque un nemico. Kant, Marx, Husserl
hanno avuto dei nemici (la metafisica, l’economia politica, la fatica
dello spirito) e pertanto hanno capito che la critica non deve essere
«solo un bisturi ma un’arma» (Marx). Con Marx questa arma è diventata
materiale. «L’arma della critica non potrebbe sostituire la critica
delle armi; la forza materiale può essere abbattuta solo dalla forza
materiale».
Tuttavia la critica delle armi ha finito per
rovesciare il senso del suo genitivo: da soggettivo (critica attraverso
le armi) si è dimostrato oggettivo (messa in discussione delle armi). In
effetti l’uso critico delle armi si è fatto trascinare dalla propria
forza in un dominio che non ha conservato in sé l’arma della critica e
l’appello all’impossibile. Al contrario, il «troppo possibile» del
dominio ha bloccato l’apertura verso l’impossibile. La critica
attraverso le armi ha smontato l’arma della critica. E infine la critica
delle armi è diventata il commercio delle armi: non solo la loro
produzione per denaro, ma il loro uso per un dominio esercitato
innanzitutto dalla morte e su dei morti.
La crisi allora è
tornata, ma solo come nome della divisione interna del «troppo
possibile»: la produzione che sa di non produrre l’uomo, l’uomo che sa
di non esporsi all’impossibile o di confonderlo con il «troppo
possibile». Il capitalismo diventa nemico di se stesso e si fa la
guerra. L’Impero si divide contro se stesso. Si pretende di ritrovare o
recuperare questo o quell’elemento normativo – un capitalismo regolato,
una democrazia virtuosa, un uomo umanista, un progresso controllato, uno
sviluppo sostenibile – ma si fa appello a qualcosa che è già stato
criticato e autocriticato da cima a fondo…
Nella Roma degli
stoici, degli epicurei e degli scettici non si smetteva mai di criticare
il corso delle cose e degli affari. Ma la crisi finì per spazzare via
le critiche e spuntò un’altra cosa, inedita e come impossibile, chiamata
«cristianesimo». È lui che oggi sperimenta la crisi del suo infinito,
che non maschera più le discriminazioni sempre più gravi che fomenta.
Perciò anche questa crisi deve essere sottoposta a critica, in quanto
nasconde e ottura il senso dell’impossibile e l’impossibilità del senso.
Ma in fondo questa critica è già fatta. Non cessa di farsi ogni giorno e
al tempo stesso di sapersi anch’essa in crisi.
Traduzione di Michelina Borsari