il manifesto 10.9.16
Il dibattito sulla «morte della politica»
La politica muore nel recinto nazionale
di Marco Valbruzzi
Ho
seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il
dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso
subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo chiama Alberto
Burgio – della «morte della politica» non mi convince affatto. Per
almeno due ragioni.
La prima è che la politica non muore; al
massimo, si indebolisce, si affievolisce, entra in un apparente letargo e
finisce per essere temporaneamente confusa con l’amministrazione
dell’esistente. Ma la politica rimane comunque al suo posto, seppure in
forme meno visibili e appariscenti.
La seconda ragione è che mai
come in questo momento, se allarghiamo i nostri orizzonti al di fuori
della piccola Italia, la politica – quella «grande» a cui faceva
riferimento Gramsci – torna a mostrarci la sua vera natura, che per
molto tempo avevamo cercato di addomesticare. Nel corso degli ultimi
anni, assistiamo quasi quotidianamente ad eventi eminentemente politici:
Stati che reclamano la loro sovranità, militari che inscenano
(maldestri) colpi di Stato, intere popolazioni costrette a fuggire dai
loro territori per motivi etnici o religiosi, nazioni che intendono
difendere i loro confini nazionali con chilometri di filo spinato o con
muri faraonici. L’elenco può essere allungato a piacimento, ma credo sia
più che sufficiente a mostrare che la «notte della politica» (se così
era) è finita e siamo all’alba di un grande risveglio.
Finora, il
dibattito dedicato alla «morte della politica» si è concentrato quasi
esclusivamente – direi ossessivamente (ad eccezione degli interventi di
Stefano Fassina e Yanis Varoufakis) – sul contesto italiano e sulle
cause «domestiche» della crisi.
La mia impressione, invece, è che
per capire lo stato attuale della politica (e della sinistra) serva una
prospettiva esterna, internazionale. Mi spiego meglio. A mio avviso,
quando oggi si discute di crisi della politica credo che, implicitamente
o no, si faccia riferimento all’idea di uno «spazio politico», quello
che gli inglesi chiamano polity per distinguerlo tanto dalla politics
(il «gioco del potere») quanto dalla policy (l’ambito delle politiche
pubbliche).
E mi pare evidente, al di là delle nostalgie
nazionalistiche dello stesso Fassina, che lo spazio politico che oggi si
trova maggiormente sotto stress è quello dello Stato-nazione, che non
ha più la forza, gli strumenti, le capacità per fare fronte alle
pressioni delle grandi multinazionali, alle dinamiche dei mercati
finanziari internazionali, ai processi migratori di scala continentale,
ai disastri climatici o ambientali che superano i confini dei singoli
Stati.
In questo senso, la crisi della politica su cui ruota
l’intero dibattito è, in realtà, una crisi dello spazio politico
nazionale, il quale, da solo, non è più all’altezza delle sfide
innescate da economie sempre più integrate a livello internazionale.
È qui, su questo snodo, che la crisi della politica si riflette dentro la crisi della sinistra, non solo italiana.
E
su questo ha pienamente ragione Burgio nel sottolineare che l’attuale
crisi della sinistra è «una crisi organica, non episodica», e cioè molto
più strutturale che congiunturale. Del resto, come potremmo spiegarci
l’uscita – per così dire – a destra (con crescita dei partiti populisti,
nazionalisti e xenofobi) dopo la più grave crisi economica che il mondo
occidentale abbia sperimentato almeno negli ultimi due secoli? Una
crisi – si badi bene – prodotta da un neo-liberismo senza freni,
totalmente «sregolato», che ha drammaticamente fatto tornare a crescere
le diseguaglianze sociali ed economiche dopo una lunga fase di
riduzione.
In teoria, tra il fallimento della ricetta neo-liberale
e l’esplosione delle (nuove) diseguaglianze esistevano praterie per la
crescita delle forze di sinistra. E invece stanno regredendo un po’
dappertutto perché incapaci di, o impossibilitate a, offrire risposte
adeguate alla crisi economica nella quale siamo ancora tutti
intrappolati. Qui sta l’elemento strutturale dell’attuale debolezza
della sinistra, legata a doppio filo con la crisi della dimensione
politica nazionale.
Se questa diagnosi è corretta, mi pare chiaro
che (soprattutto) i partiti di sinistra debbano incominciare seriamente a
interrogarsi su quale sia il nuovo spazio politico idoneo alle sfide
che ci troviamo di fronte. Per le forze politiche di destra o
conservatrici, che hanno da sempre fatto leva su uno «Stato minimo», la
debolezza della politica è un aspetto secondario, marginale. Ci
penseranno altri fattori – gli animal spirits, i singoli individui, i
gruppi di interesse ecc. – a fare i loro conti con l’economia e con i
mercati. Ma per la sinistra la politica – intesa come spazio politico
all’interno del quale poter governare e regolare anche i fenomeni
economici – è fondamentale: simul stabunt, simul cadent, o stanno
assieme o non staranno per nulla.
Se c’è uno spazio politico
all’interno del quale la sinistra può ritrovare la sua ragion d’essere è
sicuramente quello europeo. È lì che la politica può incidere sui
grandi nodi strutturali del nostro tempo (disoccupazione, immigrazione,
mobilità sociale, sfide ambientali e climatiche, terrorismo ecc.) e
offrire proposte e visioni alternative ai cittadini.
Certo, non è
questa Europa la soluzione, ma sicuramente è dentro l’Europa che va
cercata. Per questo trovo sterili le proposte di Fassina, per il quale
la risposta ad un «astratto e impolitico europeismo» sarebbe il semplice
ritorno alle prerogative dello Stato-nazione, cercando di rimettere il
dentifricio della globalizzazione dentro il tubetto nazionale:
impossibile.
Ugualmente velleitarie, ma almeno indirizzate verso
il giusto bersaglio, mi paiono le soluzioni «movimentiste» di
Varoufakis, secondo cui la nuova Europa potrà nascere soltanto da forme
diffuse di disobbedienza sociale e territoriale. Se però sono queste le
uniche soluzioni sul tavolo, ho l’impressione che la «notte della
sinistra» sarà ancora molto lunga.