Corriere La Lettura 25.9.16
Giulio Cesare Vanini (1585-1619)
Se la natura è senza Dio
I quattrocento anni del «De admirandis» del filosofo salentino condannato a morte per le sue idee, come Giordano Bruno
di Vincenzo Barone
C’è
stato un tempo in cui ragionare sull’universo poteva costare la vita.
Il caso di Giordano Bruno, arso vivo nel 1600 a Campo de’ Fiori, è il
più famoso ma non l’unico. «Andiamo allegramente a morire da filosofi»,
pare che abbia detto il 9 febbraio 1619 un altro grande visionario, il
salentino Giulio Cesare Vanini, mentre veniva condotto sul luogo del
supplizio, in una piazza di Tolosa. Il boia prima gli strappò la lingua e
poi accese la pira, ponendo fine alla breve esistenza (34 anni) del
pensatore di Taurisano. La condanna a morte per «ateismo, bestemmia,
empietà e altri eccessi» non era stata emessa dall’Inquisizione, ma da
un tribunale civile, perché negare l’esistenza di Dio era un delitto di
lesa maestà, un attentato al fondamento divino dell’autorità del
monarca.
Tre anni prima, nel settembre del 1616, era comparsa una
delle opere principali di Vanini, il De admirandis naturae reginae
deaeque mortalium arcanis (I meravigliosi segreti della natura, regina e
dea dei mortali), stampata a Parigi da Adrien Périer e accolta con
favore e interesse negli ambienti di corte e nei circoli
dell’intellettualità transalpina. L’autore, in quel momento, si trovava
in Francia dopo un lungo girovagare per l’Europa, molto simile a quello
di Bruno. Frate dell’ordine dei carmelitani, formatosi negli studi
giuridici e teologici a Napoli e a Padova, nel 1612 Vanini era entrato
improvvisamente in rotta di collisione con le gerarchie ecclesiastiche e
si era rifugiato in Inghilterra, dove aveva abbracciato la fede
anglicana. Il soggiorno londinese e la conversione durarono meno di due
anni: nel 1614 Vanini chiese di essere riammesso nella Chiesa cattolica e
fuggì rocambolescamente in Francia. A Lione, nel 1615, pubblicò la sua
prima grande opera, l’Amphitheatrum aeternae providentiae, seguita
l’anno successivo dal De admirandis. Con la fama giunsero però anche le
indagini delle autorità, insospettite dal successo che le opere dell’ex
frate riscuotevano nei cenacoli libertini. La situazione precipitò
nell’agosto 1618, quando Vanini venne improvvisamente arrestato e
sottoposto a un estenuante processo, durato sei mesi. Una prova falsa,
prodotta da un gesuita, condusse infine alla pena capitale.
Il De
admirandis è concepito come una lunga discussione filosofica, in
sessanta dialoghi, che si svolge nell’arco di una giornata estiva tra
Giulio Cesare e un giovane interlocutore, Alessandro, il quale pone di
volta in volta le questioni. Ciò che colpisce nell’opera non è tanto la
presenza di idee scientifiche di sapore moderno (anche se, per esempio,
il trasformismo biologico che vi viene affermato rappresenta una
notevole intuizione), quanto piuttosto lo sguardo integralmente
razionale e naturalistico che Vanini getta sul mondo.
Dio viene
continuamente evocato, ma solo per essere poi, di fatto, messo ai
margini, con un abile gioco di simulazione e dissimulazione che poggia,
oltre che sulla forma-dialogo, su una vasta gamma di espedienti
retorici, come le frequenti citazioni di autori ortodossi, estrapolate
dai contesti originari e usate come materiale grezzo per costruire nuovi
discorsi filosofici, o i riferimenti alle tesi dei materialisti pagani,
apparentemente confutate ma in effetti esposte con attenzione e
simpatia.
È un gioco che sembra funzionare, tant’è vero che i due
religiosi della Sorbona incaricati di leggere il manoscritto concedono
senza indugio l’approvazione alla stampa, salvo rendersi conto, subito
dopo la pubblicazione, dell’imprudenza commessa.
Come nota uno dei
maggiori esperti del filosofo salentino, Francesco Paolo Raimondi
(curatore, assieme a Mario Carparelli, dell’edizione in italiano
dell’opera omnia), «per Vanini l’ordine naturale trova in se stesso la
propria giustificazione con l’esclusione di ogni dimensione metafisica
[...] In nessun luogo egli accenna a una presenza di Dio nel mondo e in
tutte le sua analisi della realtà l’intervento divino viene escluso».
È
significativo in proposito un passo del Dialogo IV: «La mole del cielo è
posta in orbita dalla propria forma come accade per gli elementi»,
afferma Giulio Cesare. E all’obiezione di Alessandro – «Ma come possono
muoversi i cieli secondo leggi certe e stabili, se non li assistono le
divine menti motrici, partecipi della prima sapienza?» – risponde: «Che
c’è di strano? Forse che nei vilissimi macchinari degli orologi,
diligentemente predisposti da un Tedesco ubriaco, non vige una legge
certa e stabile del movimento? [...] Anche il mare ad intervalli certi e
definiti è mosso, secondo un ritmo di flussi e riflussi, dalla propria
forma, cioè da quella che voi Peripatetici chiamate gravità. Anzi,
poiché il cielo si muove sempre secondo il medesimo movimento, direi che
è mosso dalla sua pura forma e non dal volere di un’Intelligenza».
Certis
statisque legibus («Secondo leggi certe e stabili»): è uno dei concetti
fondamentali dell’opera, la formula che esprime il lato più innovativo
del pensiero di Vanini. L’universo vaniniano, meccanico e materiale, si
spiega in virtù dei propri princìpi interni, senza necessità alcuna di
introdurre entità sovrannaturali o cause finali. Le leggi della natura
non sono l’indizio dell’esistenza di un Essere intelligente, ma semmai
il contrario, perché un mondo governato da un’Intelligenza sarebbe
soggetto piuttosto all’arbitrio e alla contingenza che alla regolarità.
Sebbene l’attrezzatura intellettuale di Vanini rimanga sostanzialmente
quella aristotelica, la sua concezione del mondo rompe decisamente col
passato – con i vecchi animismi, con la separazione tra cielo e terra,
con l’antropocentrismo. «L’universo – scrive ancora Raimondi – si slarga
in una dimensione infinita, perde ogni connotazione teleologica, si
spopola dell’ingombrante schiera di essenze demoniache e angeliche
d’ogni sorta e si riafferma nella totale autonomia da ogni principio
esterno e trascendente».
Come un’improvvisa esposizione alla luce,
la secretior philosophia di Vanini «provoca un dolore in chi è rimasto a
lungo al buio» (sono sue parole). «Che danno subiscono quelli che non
ti ascoltano!», osserva Alessandro. «Al contrario – replica Giulio
Cesare – lo subiscono quelli che mi ascoltano!». L’Inquisizione se ne
accorgerà in ritardo: il decreto con cui il De admirandis viene
dichiarato “sospetto” e se ne vieta la circolazione donec corrigatur –
finché non corretto dall’autore – arriva solo nel luglio del 1620,
quando il filosofo di Taurisano (all’insaputa del cardinale Bellarmino e
dei suoi colleghi) è già in cenere. «Fu più facile bruciare Vanini che
riuscire a confutarlo», scriverà lapidariamente Arthur Schopenhauer.
Il
De admirandis è tradotto, con il testo originale a fronte, in Giulio
Cesare Vanini, Tutte le opere , a cura di F.P. Raimondi e M. Carparelli,
Bompiani, Milano, pagg. 1946, € 45