giovedì 8 settembre 2016

Corriere 8.9.16
Springsteen: combatto ancora la depressione
di Andrea Laffranchi

Uno se lo aspetta energetico e solare come sul palco. Con quella voglia di vivere contagiosa e più forte dei mille traumi provocati dal risveglio dal sogno americano che racconta nelle sue canzoni. Con quel sorriso che nemmeno quattro ore di rock e sudore possono piegare in una smorfia.
Invece anche gli eroi hanno un lato debole. E Bruce Springsteen non lo nasconde. Lo aveva confessato qualche anno fa in un’intervista al New Yorker in cui aveva parlato di una brutta depressione che lo aveva agganciato e lo aveva spinto, nel lontano 1982, a pensare anche di farla finita con tutto. Quello che Bruce allora non aveva raccontato era che quel male oscuro si era ripresentato a ondate, e una di quelle lo aveva travolto proprio in quel periodo.
Il Boss ha scelto di fare i conti con se stesso, senza sconti sembrerebbe, nell’autobiografia Born to Run , in uscita il 27 settembre (Mondadori). «Fra i 60 e i 62 ci stavo sotto, sono stato bene un anno poi ancora dai 63 ai 64», scrive parlando della depressione nelle pagine del volume anticipate da un articolo-intervista sull’edizione americana di Vanity Fair .
Uno dei momenti più acuti è stato proprio il periodo in cui stava registrando «Wrecking Ball», l’ultimo album di inediti uscito nel 2012. I compagni della E Street Band non si erano accorti di nulla. Ma una volta a casa, scrive il Boss, la moglie Patti Scialfa vedendolo come «un treno merci lanciato, carico di nitroglicerina e destinato rapidamente a uscire dai binari» aveva deciso di portarlo dal dottore. «Penso che sia un bene per lui scrivere di depressione. Una gran parte del suo lavoro viene dallo sforzo di battere quella parte di sé», commenta Patti.
Che la battaglia tutta dentro al cuore e alla testa di Bruce sia di lunga data lo confermano anche i ringraziamenti. In quello a Jon Landau, il giornalista che lo vide suonare in un localino e scrisse di aver visto il futuro del rock’n’roll e che poi divenne il suo fidato manager, il grazie è per avergli presentato il primo psicologo all’inizio degli anni Ottanta.
E tutto viene dal passato. Dalla famiglia certo. Nel libro e nell’intervista sono molte le parole e le pagine dedicate al rapporto complicato e burrascoso con il padre Doug, «un personaggio alla Bukowski» lo definisce la star, incapace di dire «ti amo». Il fantasma del passato è una costante. «Una delle cose che voglio dire in questo libro è che chiunque tu sia stato e ovunque sia stato tutto questo non ti lascia mai. Me la immagino come una macchina: Tutti i tuoi “io” sono lì dentro. Può anche entrarne uno nuovo, ma quelli vecchi non possono uscire. La cosa importante è chi ha le mani sul volante?».