lunedì 26 settembre 2016

Corriere 26.9.16
La guerra civile europea e i mezzi di informazione
risponde Sergio Romano

Difficile di questi tempi essere ottimisti sul futuro dell’Unione. Non c’è Paese in cui la stampa non esprima dubbi e pessimismo. In Italia, tuttavia, i giornali tendono a teatralizzare le vicende come non succede in Germania, in Francia o neppure in Belgio, dove abito. Non passa giorno senza che i quotidiani italiani mettano in scena con toni esasperati «scontri» e «assi», «chiusure» e «aperture», «strappi» e «riconciliazioni». Ne conosciamo in parte le ragioni. Non teme però che a lungo andare la stampa abbia un ruolo non minore nella disaffezione crescente dell’opinione pubblica italiana nei confronti del progetto europeo?
Antonio Westergaard Anversa

Caro Westergaard,
N egli anni in cui il Partito comunista divenne «europeista» il dibatto sull’integrazione europea smise di dividere la società nazionale in due campi contrapposti. Anche se con sfumature diverse, gli italiani erano quasi tutti favorevoli all’integrazione europea e ne dettero la prova con un voto quasi plebiscitario nel referendum sull’ipotesi di una costituzione comunitaria che ebbe luogo in coincidenza con le elezioni per il Parlamento di Strasburgo nel 1989. L’88% dei votanti (più di 33 milioni) disse sì alla domanda:
«Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?».
Il quadro è cambiato dal momento in cui alcune forze politiche — la Lega, il Movimento 5 Stelle — hanno cominciato a dipingere l’Europa di Bruxelles e l’euro come una pericolosa minaccia per la sovranità nazionale e il benessere degli italiani. Da quel momento il dibattito sull’Europa ha smesso di essere un confronto tra opinioni divergenti ed è divenuto una sorta di guerra civile a bassa intensità tra partiti tradizionali e forze anti sistema. La libera circolazione delle persone all’interno della Unione Europea e il numero crescente dei migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia hanno reso il confronto ancora più aspro e velenoso.
Il problema non è soltanto italiano. Non vi è membro della Ue in cui non sia nata una forza politica potenzialmente eversiva che chiede ai governi di rinnegare i vincoli europei, chiudere le frontiere e tornare alla moneta nazionale là dove è stata sostituita dall’euro. È certamente vero che i mezzi d’informazione tendono ad amplificare questi conflitti. Qualche giorno fa un giornale britannico, il Guardian , ha pubblicato un articolo in cui si registra il forte aumento di hate crimes (crimini dell’odio) contro gli immigrati dopo il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea. L’ambasciata di Polonia a Londra ne ha segnalati alla polizia non meno di trenta, diretti contro i propri cittadini. Un ricercatore dell’Istituto sulle relazioni razziali ha detto al Guardian che il fenomeno è probabilmente legato ai toni di una campagna elettorale in cui alcuni gruppi stranieri sono stati rappresentati come composti da «parassiti e imbroglioni». Ma il tono delle campagne elettorali è inevitabilmente registrato da stampa e televisione che finiscono per contribuire in tale modo alla rappresentazione di un clima conflittuale. Nei grandi drammi politici e sociali i mezzi di informazione recitano una parte simile a quella del coro delle tragedie greche quando commentano e amplificano le sventure dei protagonisti. Aggiungo che la situazione è aggravata dal populismo delle reti sociali che ricorda spesso il pubblico delle arene romane quando era chiamato a decidere la sorte dei gladiatori.