Avvenire 23.9.16
La contro-campagna della Cgil
Fertilità, è l'aborto la via alternativa?
di Massimo Calvi
Al
di là delle perplessità e delle richieste di integrazione
socio-educative già espresse dal nostro quotidiano. Al di là delle
critiche avanzate in modo aprioristico dal Siamo tutti d’accordo: la
campagna del Fertility day è stata un fallimento. Ma solo la campagna,
non l’iniziativa in sé, che non nasce affatto con lo scopo di spingere
gli italiani a fare più figli, e di farli per la Patria, ma per
informare sui rischi sanitari che determinati comportamenti possono
avere in relazione alla fertilità. Un tema nobilissimo e decisivo.
Troppe coppie sperimentano il dolore dell’infertilità anche per una
scarsa conoscenza delle cause che possono favorirla. Per questo le
persone in buona fede dovrebbero saper distinguere tra le critiche
legittime a una campagna che ha avuto l’effetto di offuscare il senso
del Fertility day, fino a offrire il fianco agli oppositori politici del
ministro della Salute Beatrice Lorenzin, e il valore del reale
messaggio di cui l’iniziativa è portatrice. Solo per fare un esempio, in
queste ore in rete circolano a mo’ di sberleffo decine di fotomontaggi
di persone famose che nonostante una vita tra droga, alcool e tutto il
resto hanno avuto 5, 6 o più figli a ciascuno.
Peccato siano tutti
maschi e che i figli li abbiano avuti da più donne e, ovviamente, molto
più giovani. Forse una differenza esiste, ed è giusto ricordarla. Ma
parlando di strategie di comunicazione si dovrebbe guardare anche sul
fronte opposto, in casa Cgil. La federazione lavoratori pubblici del
maggiore sindacato italiano, che è guidato da una donna, ha pensato bene
di proporre una contro-campagna chiamandola 'Fertility way', per
presentare la sua «via alternativa». Premesso che ci sarebbe da
riflettere su come sia possibile confondere così grossolanamente la
fertilità con la natalità, a colpire è uno dei manifesti realizzati, che
presenta una donna lavoratrice incinta – a occhio al quinto mese di
gravidanza – con la scritta: «Decido io quando avere un figlio, perché
sono libera. Questo è il paese che voglio». E, sotto: «La 194 è una
legge disapplicata, i consultori famigliari una rete in disarmo». Cioè,
in buona sostanza, nel 2016, come in una ritrovata era oscura
dell’umanità, l’orizzonte culturale del sindacato di Susanna Camusso è
quello di far intendere alle donne che c’è l’aborto come strumento di
controllo delle nascite e per poter avere una vita lavorativa
gratificante. L’interruzione di gravidanza per essere libere e lavorare,
magari con l’appoggio del datore di lavoro e chissà, qualche permesso
in più. Si potrebbe ricordare che la 194 è disapplicata anche perché,
troppo spesso, è utilizzata solo con questa logica mortale, e che i
consultori pubblici sono «in disarmo» proprio perché ridotti a centri
stampa di certificati d’aborto, mentre tante volte basterebbe un aiuto
minimo perché una donna possa decidere in vera libertà, senza subire in
solitudine tutto il peso dei condizionamenti esterni. Per la Cgil, che
come molti ha chiesto le dimissioni del ministro Lorenzin, insomma,
sembra non essere il lavoro a doversi piegare alla gravidanza, ma è il
grembo delle donne che deve adattarsi alla produzione. Chiamando tutto
questo libertà. Eppure la vera domanda è un’altra: se siamo d’accordo
che il Fertility day ha sbagliato la campagna di comunicazione, chi in
questi giorni ha avanzato critiche si riconosce invece nella campagna
sindacale e nel messaggio che trasmette? È questa l’alternativa
culturale agli sforzi per combattere il dolore dell’infertilità?