Repubblica 27.8.16
Il mio Dante primo umanista che voleva salvarci tutti
Una lettura della Divina Commedia al di fuori dall’accademia alla ricerca del significato più poetico
di Alberto Asor Rosa
È
apparso qualche tempo fa un libro molto interessante e molto utile, “Il
viaggio di Dante” (Carocci), di Emilio Pasquini, uno dei maggiori
dantisti attualmente operanti (è autore, con A. Quaglio, di un ottimo
commento alla Commedia, Garzanti, 1987). È, in sostanza, la traduzione
in prosa, molto circostanziata e precisa, e al tempo stesso sintetica ed
essenziale, dell’intera materia della Commedia dantesca, canto per
canto. È molto utile, perché consente facilmente di ricostruire l’intero
tragitto dell’esperienza oltremondana di Dante — non è un mistero per
nessuno che
la Commedia sia oggi assoggettata (anche per motivi
oggettivi inconfutabili) a una lettura sempre più frammentaria —
episodio per episodio, personaggio per personaggio, seguendo spesso la
generalità di giudizi critici talvolta secolari (questo è bello, questo è
brutto; questo è riuscito, questo non è riuscito…).
Ciò, com’è
noto, avviene necessariamente a livello scolastico (fuori dalla scuola,
non si sa più cosa avvenga a proposito di Dante…). Leggere, com’è
possibile fare, senza difficoltà alcuna, le pagine di Pasquini, può
contribuire a riempire i vuoti fra un “episodio” e l’altro e ad avere
almeno un’idea più unitaria del poema (le illustrazioni trecentesche,
che fregiano simpaticamente le pagine del libro, sprigionano il potere
suggestivo di far rivivere anche di fronte ai nostri occhi l’immaginario
dell’epoca).
Ma l’interesse del libro sta soprattutto nel
ricordarci che l’esperienza di Dante nell’oltretomba (Inferno,
Purgatorio, Paradiso) ha assunto inequivocabilmente, — e anche nel senso
più letterale del termine — la forma di un “viaggio”, anzi forse più
esattamente, di un “per-corso”, nel quale Dante, oltre a essere
testimone (testimone dell’infinità di colpe e di esperienze di
salvazione, di cui l’umanità è soggetta e al tempo stesso protagonista),
è anche lui al tempo stesso personaggio e protagonista: per giunta, un
vero protagonista, non un protagonista fittizio e strumentale.
Naturalmente, quando si parla di Dante, le interpretazioni autentiche
possibili (per non parlare di quelle infondate e cervellotiche) sono
migliaia: guardarsi, dunque dal seguire pedissequamente la proposta
unitaria e autosufficiente, di volta in volta, del singolo interprete.
Quindi,
io voglio qui sottolineare semplicemente l’aspetto della sua poesia,
che mi sembrerebbe parlare di più alla nostra confusione e ai nostri
disagi. E cioè… Dante scende di girone in girone nell’Inferno, fino a
scoprire la dimensione mostruosa della colpa umana, dell’irresistibile e
invincibile, e irrimediabile (irrimediabile!) inclinazione umana a
commettere il male. Poi, arrovesciandosi su se stesso sempre guidato da
Virgilio (io attribuisco un significato esemplare a questa metafora
fisica del passaggio infernale conclusivo e del ritorno alla luce),
raggiunge le sponde della montagna del Purgatorio, che sorge al centro
dell’altro emisfero, di cui “ascende” (“ascende”, appunto, come prima
era “disceso”) le cornici dei penitenti, soppesando natura e potata di
punizioni e di pentimenti, fino ad arrivare alla sua sommità, dove trova
il Paradiso terrestre (e dove altrimenti questo avrebbe potuto
collocarsi, se non lassù in alto, sul vertice della montagna dove hanno
luogo il pentimento e la purificazione?). Di lì, alla guida poetica e
umana di Virgilio, subentra quella di Beatrice, creatura del suo amore,
che però l’Amore divino ha fatto a questo punto veicolo privilegiato
della sua salvezza. E con lei, di cielo in cielo, arriva infine alla
conoscenza ultima, che però, non può esser detta ma solo pensata e, per
il lettore, solo indirettamente accennata. Dante chiama Paradiso questa
estrema sublimazione del pensiero e dell’esperienza umani. Se uno
rimette insieme i vari passaggi di questo “per-corso”, evitando, come
già s’è detto, di frammentizzarne troppo la lettura e l’interpretazione,
non sarebbe né illecito né esagerato concludere che ci troviamo di
fronte al più gigantesco disegno di una possibile salvazione umana. Il
più gigantesco? Sia concesso per una volta all’interprete di dire quello
che veramente pensa. Sì, il più gigantesco. Perché nasce da
un’esperienza umana ricca come poche. Ma soprattutto perché Dante fa
della propria esperienza umana il gradino da cui contemplare da vicino e
al tempo stesso dall’alto (ecco, le capacità e l’esperienza del
grandissimo poeta!) quella del genere umano considerato in tutte le sue
forme.
Effetto di una visione cristiana del mondo? Sì, non c’è
dubbio, anzi, è ovvio. Solo che Dante, invece di sublimare l’umano nel
divino, — come fanno in genere gli interpreti sacerdotali della
dottrina, — infonde il divino nell’umano, e fa perciò di ogni sua storia
umana una vicenda esemplare al di là del tempo e dello spazio. È
cristiano; ma è anche più che cristiano: è universalmente umano.
La
galleria dei suoi personaggi leggendari, dell’antichità e del presente,
dell’immaginario e della realtà, — Farinata, Brunetto Latini, Ulisse,
Manfredi, Bonconte, da Montefeltro, Pia de’ Tolomei, Sordello, Marco
Lombardo, Stazio, Matelda, Piccarda Donati, lo stesso Virgilio, la
stessa Beatrice — trae luce dalla predisposizione poetica decisiva del
creatore dell’opera: affinché l’uomo conosca fino in fondo il segreto
della creazione, bisogna che lui stesso nei crei l’immagine e il
disegno. Quel che talvolta con tono banale si dice, e cioè che con Dante
bisogna retrodatare l’inizio del cosiddetto Umanesimo, è più vero
(penso) alla luce di quanto finora ho cercato di argomentare. Dante è il
primo umanista, perché per primo, indubitabilmente, colloca l’uomo al
centro della storia umana e ne scopre la tendenziale primazia sia
storica sia individuale rispetto al resto del mondo, — di tutto il
mondo.
Dante, cioè, compie il vero e proprio miracolo di risanare
le fratture umane, — quelle da cui oggi siamo così universalmente e
profondamente colpiti, — senza ignorarle (tutt’altro), mettendoci di
fronte agli occhi un colossale processo di ricomposizione unitaria del
mondo: dagli abissi più temibili e terribili, e inevitabili, alle
supreme, difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità. Non
lo fa per forza ragionativa, ma poetica. O meglio: la sua straordinaria
forza ragionativa diviene parte integrante e indissociabile della sua
integrale visione poetica. Ossia: quel che il raziocinio non riesce
neanche a immaginare, la poesia ce lo fa vedere con la forza
inconfutabile del linguaggio umano.
Non sarebbe il caso di trarre
tutti, — non solo i pretesi o presunti specialisti, — un impensabile
vantaggio, un benefizio senza pari, dalla conoscenza e dall’introiezione
di un’esperienza come questa? In fondo ci vuole poco: basta leggere.