Repubblica 26.8.16
L’Islam, il cristianesimo e la polemica sul burkini
di Vito Mancuso
LA
QUERELLE sul divieto del burkini e la polemica sulle suore in spiaggia
ha avuto di certo il merito di richiamare la comune radice di
cristianesimo e islam in ordine alla questione dell’abbigliamento cui
devono essere tenuti i corpi delle donne. Ha avuto quindi una felice
intuizione l’imam di Firenze, Izzedin Elzir, nel pubblicare sulla sua
pagina facebook, come commento, una foto di alcune religiose al mare?
Per giudicare basta leggere ciò che al riguardo ordinava san Paolo (in
questo articolo mi si scuseranno le lunghe citazioni, ma credo sia
importante): «Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e
capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o
profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma
ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al
proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non
vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna
tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve
coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna
invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla
donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la
donna per l’uomo. Per questo la donna deve avere sul capo un segno di
autorità a motivo degli angeli» (Prima lettera ai Corinzi 11,3-10,
versione ufficiale Cei).
Qui san Paolo dice tre cose precise: 1)
che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a
Cristo, e Cristo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia
ascendente; 2) che la donna non solo è sottoposta ma è addirittura
finalizzata all’uomo, nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è
chiamata a essere la “gloria”; 3) che la donna deve coprire la sua testa
in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta.
L’islam
ripresenta la medesima impostazione. La superiorità dell’uomo rispetto
alla donna è affermata chiaramente dal Corano: «Gli uomini sono un
gradino più in alto» (sura 2,228, trad. di Ida Zilio-Grandi). Nella
stessa prospettiva la sura 4 intitolata Le donne afferma: «Gli uomini
sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli
altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle. Le donne
buone sono devote a Dio e sollecite della propria castità così come Dio è
stato sollecito di loro, e quanto a quelle di cui temete atti di
disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti e poi
battetele, ma se vi ubbidiranno non cercherete pretesti per
maltrattarle, Dio è grande e sublime » (4,34). Quanto alla
finalizzazione della donna rispetto all’uomo, così scrive il Corano:
«Agli occhi degli uomini è stato abbellito l’amore dei piaceri, come le
donne, i figli e le misure ricolme d’oro e d’argento, e i cavalli di
razza, e il bestiame e i campi» (3,14). Ed è sufficiente pensare alla
concezione islamica del paradiso in cui donne giovani e belle saranno
sempre a disposizione dei credenti maschi, per ritrovare confermata tale
innegabile centralità maschile. Da qui, come già per san Paolo, per il
Corano discende il tipo di abbigliamento cui deve conformarsi il corpo
femminile: «Profeta, di’ alle tue moglie e alle tue figlie e alle donne
dei credenti che si coprano con i loro mantelli; questo sarà meglio per
distinguerle dalle altre donne affinché non vengano offese, ma Dio è
indulgente e compassionevole » (33,59).
Appare quindi chiaro che,
sia per il cristianesimo sia per l’islam, l’abbigliamento femminile
comandato non è una semplice questione di tradizione né tanto meno di
gusto, ma suppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna
all’insegna della subordinazione di quest’ultima. Non è certo un caso
che in Occidente l’affermazione della piena parità giuridica uomo-donna
abbia avuto come conseguenza la mutazione dell’abbigliamento femminile
da cui è scomparso ogni segno di subordinazione, compreso il velo in
testa a cui, stando alle severe disposizioni di san Paolo, erano tenute
tutte le donne in chiesa fino a solo qualche decennio fa. Dietro il
burkini quindi, e in genere dietro ogni tipo di velatura più o meno
ampia (con fascia, scialle, foulard, velo semplice, velo totale incluso
il viso), c’è l’idea che la donna sia inferiore all’uomo e a lui
sottomessa. Per questo a mio avviso non ha torto il premier francese
Manuel Valls ad affermare che il burkini «è la traduzione di un progetto
politico, di contro-società, fondato notoriamente sulla sottomissione
della donna » e che quindi «non è compatibile con i valori della Francia
e della Repubblica». E dato che la parità uomo-donna è anche un nostro
valore, io penso che quel costume, e in genere l’abbigliamento che esso
traduce, non sia compatibile neppure con il nostro paese.
È
semplicistico dire che alla libertà di andare in spiaggia con il bikini
deve corrispondere quella di andarvi con il burkini: nel primo caso
infatti si assiste a un movimento di liberazione del corpo, mentre nel
secondo di asservimento. E la libertà, se la si intende seriamente, non è
mai solo astratta, cioè fare quello che si vuole, ma sempre concreta,
cioè fare quello che è giusto e fa bene, e non ci sono dubbi che la
liberazione del corpo sia un bene, anche per la liberazione della mente
che ne consegue.
Il cristianesimo e l’islam, così come l’ebraismo e
le altre religioni, sono quindi uno strumento di oppressione? Lo
possono essere, non ci sono dubbi, c’è la storia a dimostrarlo, come del
resto la storia mostra che possono diventare anche strumento di
liberazione se vissuti correttamente: una liberazione dall’oppressione
sociale (si pensi alla teologia della liberazione in America Latina) e
una liberazione dal proprio egocentrismo e dalle proprie cattiverie, si
pensi alla storia della santità e della mistica.
Il punto
essenziale è comprendere che siamo inseriti tutti in un processo di cui
nessuno, neppure ovviamente la laicità francese, detiene il punto di
vista assoluto e alla cui evoluzione tutti sono chiamati a contribuire.
Diceva il grande teologo Raimon Panikkar che «le religioni si devono
convertire ». È vero: le religioni si devono convertire all’idea di non
rappresentare il punto di arrivo dell’umanità, ma di essere uno
strumento a servizio del bene e della giustizia, i quali sono i veri
punti di arrivo cui continuamente tendere.
L’imam di Firenze ha
accostato le suore cristiane alle donne musulmane, ma ha dimenticato che
le suore rappresentano un gruppo particolare di donne che ha
liberamente scelto di vivere in povertà, castità e obbedienza, e il cui
abbigliamento richiama il loro stile di vita alternativo. Sono ben
lontane però dal rappresentare tutte le donne occidentali, le quali
hanno altrettanto liberamente orientato se stesse secondo ben altri
stili di vita e di abbigliamento. L’islam, che non ha suore, in un certo
senso tende a rendere un po’ suore tutte le donne che vi aderiscono. Il
che però non è compatibile con l’idea di donna cui l’Occidente è
giunto. E di questo i musulmani e le musulmane che vogliono vivervi
dovrebbero, a mio avviso, prendere atto.