sabato 27 agosto 2016

Corriere 27.8.16
Nel ’900 un sisma ogni 3 anni. La schiena fragile del Paese
Dal 1315 gli Appennini sono stati scossi da 148 terremoti superiori a 5.5 della scala Richter
E dalla prima casa antisismica di Pirro Ligorio (1570) si discute di regole (troppo spesso disattese)
di Gian Antonio Stella


«La città è stata cancellata di un soffio dalla superficie terrestre. Non esistono rovine; non esiste che un immenso strato di polvere, da cui sbucano strani, esilissimi, quasi trasparenti spettri di mura. Cancellate le case, cancellate le chiese, cancellate le piazze, cancellate le vie. Avezzano non è che un cimitero su cui mani pietose già incominciano a piantare croci».
Era il 16 gennaio del 1915. E Umberto Fracchia, sceso nella notte dal treno che lo aveva portato nella cittadina della Marsica epicentro di un terremoto devastante e così vicina all’Aquila e ad Amatrice, aveva la mano che tremava mentre scriveva il suo reportage per «L’Idea Nazionale»: «Non un palmo di terra fu risparmiato: nessuno riuscì a trovar salvezza nella fuga. Quelli che erano in casa ebbero tetti e mura addosso; quelli che erano per le vie furono schiacciati tra il doppio crollo degli edifici che avevano ai due lati. La città era costruita di fango; è ritornata fango».
È passato un secolo, da allora. E gli Appennini non hanno mai smesso di dare spaventosi scossoni. La storica Emanuela Guidoboni, che con Gianluca Valensise e altri studiosi ha raccolto in vari libri come «L’Italia dei disastri, dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013» la memoria storica delle nostre calamità naturali (aggravate da superficialità, incuria, sciatteria amministrativa e legislativa) ha fatto i conti. Da far accapponare la pelle.
La fragile spina dorsale del nostro Paese, dal 1315 quando un sisma appena un po’ meno grave di quello del 2009 devastò l’area dell’Aquila, ha fatto segnare (come spiega la mappa elaborata dal ricercatore Umberto Fracassi) 148 terremoti superiori a 5.5 gradi della scala Richter. E quasi tutti superiori all’VIII° grado di «intensità epicentrale». Per capirci: di uno scossone non basta sapere la magnitudo. Occorre anche conoscere la quantità di danni che ha prodotto. Un calcolo complicatissimo che si può riassumere così: con l’ottavo grado di intensità epicentrale crolla o diventa inabitabile il 25% degli edifici, con il nono la metà, con il decimo l’intero patrimonio immobiliare. L’undicesimo è l’apocalisse. Come a Messina nel 1908.
In pratica, da quando la scienza ha potuto studiare più approfonditamente le attività sismiche e più ancora da quando sono state conservate precise memorie storiche dei disastri, la catena che, come scrisse Arrigo Benedetti, «si stacca dal colle di Cadibona, arriva in Calabria, si immerge e riaffiora in Sicilia», ha dato 19 pesantissimi strattoni nel 1600, 33 nel 1700, 29 nel 1800, 30 nel 1900 e già sei, con il cataclisma del 24 agosto scorso, in questo primo scorcio del secolo.
In pratica, gli Appennini cantati da Dante Alighieri come monti di grande fascino ma impervi («Noi divenimmo intanto a piè del monte;/ quivi trovammo la roccia sì erta,/ che indarno vi sarien le gambe pronte») sono stati squassati da improvvisi e terrificanti sussulti, mediamente, una volta ogni tre anni.
La catena che scende dal Nord fino all’estremo Sud offre panorami di grandissima bellezza. E prima di Francesco Guccini, che lì «tra i castagni» ha vissuto gli anni più intensi della vita coltivando un amore sconfinato («La mia è una montagna in cui la cima più alta arriva sui 2.100 metri, dove non c’è roccia, dove i boschi di castagno e faggio coprono tutto fino a duemila metri») hanno affascinato molti viaggiatori. Come Wolfgang Goethe.
«Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato», scrisse nel suo «Viaggio in Italia». Spiegando che «se la struttura di questi monti non fosse troppo scoscesa, troppo elevata sul livello del mare e così stranamente intricata; se avesse potuto permettere al flusso e riflusso di esercitare in epoche remote la loro azione più a lungo, di formare delle pianure più vaste e quindi inondarle, questa sarebbe stata una delle contrade più amene nel più splendido clima, un po’ più elevata che il resto del Paese. Ma così è un bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l’una dell’altra; spesso non si può nemmeno distinguere in quale direzione scorra l’acqua. Se le valli fossero meglio colmate e le pianure più regolari e più irrigue, si potrebbe paragonare questa regione alla Boemia; con la differenza che qui le montagne hanno un carattere sotto ogni aspetto diverso. (…) I castagni prosperano egregiamente; il frumento è bellissimo e le messi ormai verdeggianti. Lungo le vie sorgono querce sempre verdi dalle foglie minute; e intorno alle chiese e alle cappelle agili cipressi».
Montagne stupende, montagne inquiete. Maledette troppe volte, giù per i secoli, dai nonni dei nostri nonni. Costretti a ricostruire ciò che era stato raso al suolo. Eppure già dal 1570, quando Pirro Ligorio presentò la prima casa «antisismica» dopo il terremoto di Ferrara, i governanti più accorti avrebbero dovuto sapere che il rischio andava affrontato con regole precise. Tant’è che nel 1783 la Commissione Accademica napoletana denunciava che la popolazione calabrese, pur «avvezza alle scosse di tremuoti», non capiva che occorreva «pensare ad un modo onde formare le case in guisa che le parti avessero la massima coesione e il minimo peso» mentre «qui si vedeva precisamente il contrario…».
Passarono, le borboniche «Normative Pignatelli» che puntavano a mettere ordine nel caos. Ma solo per qualche anno. E quando Pio IX chiese nel 1859 ai suoi ingegneri di predisporre un nuovo piano edilizio per Norcia, prostrata da un sisma, ci fu un braccio di ferro fra le autorità e il Comune. Recalcitrante a rispettare le regole perché vincolavano troppo i proprietari.
Si è detto e ridetto anche in questi giorni: occorre una svolta, bisogna adeguare le leggi a una realtà difficile, è necessario intervenire con la prevenzione prima che le catastrofi avvengano… Giusto. Sono passati però 107 anni da quell’aprile 1909 in cui Vittorio Emanuele III firmò il primo decreto con alcune prescrizioni per le aree a rischio sismico o idrogeologico. Vietava di «costruire edifici su terreni paludosi, franosi, o atti a scoscendere, e sul confine fra terreni di natura od andamento diverso, o sopra un suolo a forte pendio, salvo quando si tratti di roccia compatta». Concedeva qualche deroga ma mai a edifici «destinati ad uso di alberghi, scuole, ospedali, caserme, carceri e simili». Ordinava che i lavori dovessero «eseguirsi secondo le migliori regole d’arte, con buoni materiali e con accurata mano d’opera» e proibiva «la muratura a sacco e quella con ciottoli»… Puro buon senso.
Eppure un secolo dopo, davanti alle macerie di Pescara del Tronto, Accumoli, Amatrice e le sue contrade, siamo ancora a chiederci: possibile? Possibile che per decenni si siano continuate a costruire case destinate a crollare rovinosamente, magari sotto pesantissimi tetti in cemento armato, al primo dei numerosi terremoti?
Il guaio è, spiega Emanuela Guidoboni, che già allora «non furono previste sanzioni. Dal 1909 ebbe sì inizio la classificazione sismica del territorio italiano, ma questa classificazione si faceva solo “dopo”. A disastro avvenuto». Peggio: per decenni «si è proceduto a macchia di leopardo, con vicende alterne e clamorose retromarce. Vari comuni classificati a rischio (come Rimini dopo il terremoto del 1916) chiesero infatti negli anni 40 e nel dopoguerra di essere de-classificati. E sapete con che scusa? Far crescere il turismo!»
A farla corta: sì, forse sono necessarie nuove regole per contenere i danni di questi Appennini stupendi ma collerici. Più importante ancora, però, è farle poi rispettare.