«teologia comunista»...
il manifesto 13.7.16
Alain Badiou. Il teologo dei tempi migliori
È
una testimonianza a difesa dell’«idea comunista» il filo rosso che
unisce «Il nostro male viene da lontano» (Einaudi), «Alla ricerca del
reale perduto» (Mimesis) e «Lacan» (Orthotes). Dalla strage al Bataclan
compiuta da giovani banlieusard alla passione per il reale in tre libri
del filosofo francese
di Benedetto Vecchi
Francia,
23 novembre 2015. Sono passati solo dieci giorni da quando un gruppo
armato islamico fedele al Califfato ha massacrato a Parigi decine e
decine di francesi e non solo. Il governo ha proclamato lo stato
d’emergenza, sui giornali la domanda più ricorrente è: perché? Un
quesito che assume toni drammatici mano a mano che emerge il fatto che
alcuni componenti del commando sono figli di migranti ma nati in Francia
o in Belgio. È in questo contesto che Alain Badiou tiene un seminario
al teatro comunale di Aubervilles, opportunamente tradotto da Einaudi
con il titolo Il nostro male viene da più lontano (pp. 68, euro 12).
Il
filosofo francese invita alla calma, a mantenere la necessaria lucidità
nel comprendere un fenomeno ai più sconosciuto, ma abbastanza evidente
da quando, mesi prima, un altro gruppo islamista radicale aveva messo a
morte gran parte della redazione del giornale satirico Charlie Hebdo.
Chi ha sparato al Bataclan o contro giovani seduti nei bistrot o al
ristorante, riuniti per bere un aperitivo o per la cena, conferma un
identikit già noto: giovane delle banlieue, conducendo un’esistenza ai
margini per poi aderire a una visione politica fondamentalista. Per
Badiou non ci sono troppi giri di parole: quei giovani esprimono
ostilità, rabbia, odio verso i valori della Republique. Vedono nella
Francia un paese coloniale e oppressivo all’interno (i giovani islamici
segregati in maggioranza nelle banlieue) e all’esterno, perché complice o
protagonista di molte guerre contro l’Islam.
Il fascismo islamico
Badiou
non ha difficoltà nel ricostruisce la genesi di tale odio,
individuandola nel passato coloniale francese. Scrive di una doppia
morale: se aerei di combattimento e soldati francesi bombardano o
uccidono civili in Libia o in Mali lo fanno per difendere la democrazia e
per combattere l’oscurantismo del Califfato, ma se ci sono giovani che
usano la stessa violenza contro francesi sono solo bestie. La
contabilità dell’orrore non porta tuttavia lontano. Nel seminario non ci
sono infatti parole di comprensione o di giustificazione per il
commando. Badiou usa la fragile categoria di «fascismo islamico». È
consapevole delle critiche che l’hanno accompagnata e ha un bel da fare a
precisare i termini del nichilismo di massa, della caduta verticale di
legittimità dei valori repubblicani. La sua spiegazione della violenza
nichilista al Bataclan corre comunque il rischio di un determinismo
economico, che il filosofo non sempre riesce a padroneggiare. Se le
banlieues sono gli spazi metropolitani dell’esercito industriale di
riserva, poco o nulla viene detto sulla presenza di soggettività
postcoloniali in terra di Francia che, nella loro ambivalenza, oscillano
tra anomia, radicalizzazione del trittico «libertà, eguaglianza e
fraternità» e invenzione di identità islamiche fondamentaliste.
Quello
che preme di più a Badiou non è però un’analisi dei meccanismi di
integrazione e esclusione sociale; né vuole sbrogliare la matassa dei
mancati incontri tra i movimenti sociali «metropolitani» e i
banlieusard, come testimoniano ad esempio le mobilitazioni recenti
contro la loi du travail. È invece interessato ad aprire una discussione
sul «reale», sulla sua intelligibilità se si rimane ancorati a una
vision neoliberista.
Un testo breve, dunque, questo dato alle
stampe da Einaudi, ma comunque indicativo delle difficoltà di chi ha
manifestato, come Badiou, la possibilità di dare nuova linfa vitale
all’«idea comunista». Andrebbe però letto, al di là dell’oggetto del
seminario (l’islamismo fondamentalista), come una tappa di un percorso
teorico più che ventennale, scandito da molte tappe (i suoi saggi
pubblicati) alle quale vanno aggiunte quelle rappresentate da due volumi
usciti più o meno negli stessi giorni di questo pubblicato dalla casa
editrice torinese. Il primo è Alla ricerca del reale perduto (Mimesis,
pp. 66, euro 8) e l’altro è Lacan (Orthotes Edizioni, pp. 214, euro 20).
Entrambi raccolgono scritti e testi di seminari che attraversano gli
anni Novanta. L’oggetto polemico di li unisce è la critica al pensiero
unico che stabilisce il capitalismo internazionale come solo reale
possibile.
Le macerie del muro di Berlino erano state, al momento
della scrittura dei testi, da poco raccolte per metterle in un museo
dedicato al terribile Novecento. In filosofia, almeno in Francia, i
nouveaux philosophes erano ancora sulla cresta dell’onda e autori come
Gilles Deleuze, Michel Foucault sono guardati con sospetto, mentre i
maître à penser dei decenni passati sono da da cancellare dal pantheon
del sapere perché complici e corresponsabili del «comunismo reale».
Pensare l’impossibile
Per
contrastare questo «clima» culturale, Badiou propone di fare un doppio
movimento teorico. Da una parte «pensare l’impossibile», che non va
inteso come una fuga dal reale, bensì come operazione propedeutica a
svelare il carattere parziale, ideologico di quello che viene presentato
come l’unico reale esistente. Dunque l’impossibile non propone un altro
reale, ma il modo per operare una scissione in due dello stesso. Perché
il reale non è un unicum: esprime sempre un conflitto che ne presiede
lo sviluppo. È questo conflitto che va nuovamente svelato, affinché la
«passione per il reale» che ha contraddistinto il Novecento possa
tornare ad occupare la scena principale nelle società capitaliste. Ma se
questo è il primo movimento proposto da Badiou – pensare l’impossibile
per riproporre il reale rimosso o cancellato dagli apologeti del
pensiero unico – il secondo riguarda il reale da ristabilire.
Per
fare questo, Badiou privilegia l’«aneddoto», la «definizione» e la
«poesia». Operazione sofisticata e tuttavia mimetica, allusiva, mai
performativa. L’aneddoto parte dal malato immaginario di Molière: è esso
reale o appunto immaginario? È reale anche se immaginario, afferma
Badiou. Perché il malato immaginario è reale tanto quanto chi denuncia
l’assenza di malattia. Anche qui una scissione del concetto di reale.
Per
definizione, Badiou intende invece la scienza e la sua pretesa di
restituire un reale non ambiguo, scevro da possibili interpretazioni,
anzi formalizzabile attraverso la matematica, la fisica. Ma un numero o
una equazione, una funzione non aiutano nella comprensione del reale:
questo mantiene la sua intelligibilità se si delega i soli numeri a
rappresentarlo. La scienza attiene quindi al mondo della natura, non a
quello prodotto dall’uomo per dominarla e assicurarsi le condizioni
della sua riproduzione come specie. Infine c’è la poesia, più
precisamente le Ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini, come emerge
nel testo pubblicato da Mimesis. La lettura del testo pasoliniano è
funzionale a quello svelamento della possibilità di «pensare
l’impossibile».
Pasolini scrive le Ceneri di Gramsci negli anni
Cinquanta. Il poema viene pubblicato nel 1957, un anno dopo che le
truppe del patto di Varsavia sono entrate a Budapest e hanno represso
nel sangue la rivolta ungherese. Non ci sono mai riferimenti espliciti a
quel che è accaduto in «campo socialista», ma Pasolini compone il poema
con la consapevolezza che qualcosa si è infranto, che l’idea di
trasformare la realtà si è infranta sugli scogli della realpolitik e di
un regime oppressivo come quello dell’Urss. Questo non significa
rinunciare a pensare l’impossibile. Gramsci era anch’egli uno sconfitto,
annota Badiou, ma ha continuato a scrivere, lasciando in eredità testi
considerati uno degli esempi più creativi del pensiero marxista. È la
brace che continua a bruciare sotto la cenere.
La mappa lacaniana
C’è
però la necessità di ripensare la filosofia, meglio il «filosofare». La
figura intellettuale che fornisce elementi per definire il filosofare
dopo la fine della «passione per il reale» è Lacan, il «mio maestro»
scrive Badiou.
Il Lacan di Badiou non è quindi un antifilosofo,
come molta saggistica oltralpe sostiene. Quello di Lacan è infatti
presentato come un laboratorio filosofico che cerca di costruire una
mappa tematica dove immaginario, desiderio, godimento, psicoanalisi sono
chiavi di lettura del reale, nonostante l’analista francese abbia
sempre manifestato la sua insoddisfazione, insofferenza, talvolta
ostilità verso la filosofia (avvincenti e ironiche sono le pagine dove
Badiou ricorda il giudizio ostile di Lacan contro Heidegger e la
metafisica). Anche in questo caso il reale va pensato nella sua tensione
antagonista.
Ma se uno dei due poli del reale è il capitalismo
internazionale, l’altro polo è sempre in attesa di essere nominato. In
questi tre volumi non compare mai, vista la dimensione mimetica che
Badiou persegue. Ma è indubbio che è l’idea comunista: che l’agisce può
essere sconfitto, ma essa è come un’araba fenice che risorge sempre
dalle sue ceneri. Quella del filosofo francese non è quindi un tentativo
di rifondare l’idea comunista, ma di preservarla dall’oblio. La sua è
una, va da sé appassionata testimonianza del carattere antagonista del
capitalismo. Badiou tratta però sempre con sufficienza i tentativi di
capire come il capitalismo è cambiato e come è cambiato il suo
antagonista, il proletariato. La globalizzazione, il neoliberismo sono
considerati come fenomeni parziali, effimeri tesi a prevenire il pensare
l’impossibile. Quella di Badiou è cioè una filosofia dell’attesa, non
quella messianica ma quella di tempi migliori.
Le ceneri del Novecento
La
sua «teologia comunista» si nute di pessimismo della ragione e della
volontà. Per Badiou siamo nell’era del sempre eguale. Ma se eguali
rimangono le condizioni di sfruttamento del lavoro vivo, le forme dello
sfruttamento rivestono in questa contingenza una rilevanza teorica e
politica. Finanziarizzazione, precarietà, general intellect,
globalizzazione non sono significanti vuoti, ma parole, campi di
intervento politico dentro e contro un rapporto sociale di produzione
dove lo sviluppo capitalistico è ancora scandito dal lavoro vivo, dalla
sua composizione sociale, dalle forme di conflitto. E dai limiti che il
lavoro vivo manifesto. Quel che occorre, più che testimoniare fedeltà
all’idea comunista, è «attraversare» (di nuovo: dentro e contro) le
ambivalenze del lavoro vivo, delle sua composizione sociale e del suo
divenire, come drammaticamente evidenziano proprio quei giovani
banlieusard che hanno massacrato altri giovani al Bataclan di Parigi o
che a Bruxelles si fanno saltare in un’aeroporto. Qui la tensione
antagonista del reale si manifesta, in attesa non di essere svelata
quanto di essere messa al lavoro politicamente. Qui c’è sperimentazione.
Qui c’è movimento reale. Altrimenti la brace che cova sotto le ceneri
di Gramsci o di Marx più che riaccendere la passione del reale si
spegne.