Repubblica 1.7.16
Il nobel Angus Deaton: “Assurdo che gli svantaggiati sostengano Trump e Farage”
“Il mercato libero sarà odiato dai poveri finché aumenterà le disuguaglianze”
intervista di Eugenio Occorsio
ROMA.
Globalizzazione e diseguaglianze, due facce della medaglia. Come
valorizzare la prima senza accentuare le seconde, un’equazione intorno
alla quale si scervellano da anni economisti di tutto il mondo. E la
missione di una vita per Angus Deaton, classe 1945, nato a Edimburgo e
oggi docente a Princeton dopo aver insegnato a Cambrige e Brixton, che
grazie ai suoi studi sulla povertà e le ingiustizie insite nella
globalizzazione ha vinto il Nobel per l’economia nel 2015. «Quello che
non riesco a spiegarmi, che non mi dà pace, è che a favore della
conservazione più retriva, da Farage a Trump, si siano schierate le
fasce più svantaggiate, dagli abitanti di Tower Hamlets, il distretto
degli immigrati di Londra dove il 30% dei bambini vive sotto la soglia
di povertà, a quelli di Sunderland, una cittadina che grazie alla
globalizzazione vive quasi esclusivamente in virtù di una fabbrica della
Honda».
Lei ha conservato la doppia cittadinanza: ha votato?
«Macché.
C’è una strana legge nel Regno Unito che impedisce di votare agli expat
che vivono da più di 15 anni all’estero. La legge viene bypassata di
solito con misure ad hoc del governo. Stavolta, niente. L’ennesimo
autogol di Cameron. Ero sicuro di poter votare Remain».
Come la maggior parte dei suoi connazionali scozzesi.
«La
Scozia ha legami con l’Europa più forti dell’Inghilterra, pensi solo
che prevale la religione cattolica. Ha anche una tradizione
illuministica di rispetto. Ma a parte la Scozia, il pericolo è quello di
tornare a un’Europa divisa e preda dei nazionalismi come all’inizio del
Novecento. Roba da rabbrividire. Vede? Stiamo qui a parlare di scenari
di guerra, mentre l’Europa è nata dalla pace e per la pace».
La Brexit avrà effetti sulla globalizzazione?
«Innanzitutto
non sono sicuro che la Brexit ci sarà. Anzi. Ci sono tante circostanze
che possono evitarla che, a mio giudizio, alla fine non se ne farà
nulla. Certo, se invece si andrà fino in fondo, il colpo alla
globalizzazione sarà pesante, per la semplice ragione che ci sarà un
brusco calo degli interscambi commerciali e quindi un rallentamento
dell’economia mondiale. Al quale si accompagnerà una riduzione dei
movimenti di personale qualificato all’interno dell’Europa, che è un
fattore trainante della crescita. L’incertezza continuerà a lungo, il
che è un male per tutti. Meno soldi saranno in circolazione e su di essi
si avventeranno con maggior cupidigia i soliti già ricchi e potenti».
Potrebbe essere un’occasione per ripensare ai tanti errori in tema di diseguaglianze?
«Veramente
sarebbero accentuate. Ma la realtà è difficile da prevedere. La Gran
Bretagna è diventata, dai tempi della Thatcher, il terreno di coltura
europeo delle diseguaglianze. In altri Paesi, dalla Scandinavia al
Mediterraneo, la situazione è meno drammatica. Ma la Gran Bretagna
sembra aver preso il peggio dall’America, campione mondiale delle
diseguaglianze. Londra ha ora abbinato questa leadership negativa a una
imperdonabile insofferenza contro gli immigrati. Nel mondo occidentale
si diffonde anziché ridursi quello che Thomas Piketty chiama
“capitalismo patrimoniale”: sono i ricchi a fare le leggi, a loro
beneficio. Si innescano reazioni a catena, e la stessa democrazia
finisce col soffrirne perché si diffonde la sensazione che il proprio
voto non conti nulla per modificare la situazione. Da diseguaglianza
nasce diseguaglianza: oltretutto questo rallenta la crescita mondiale e
riduce le possibilità che la globalizzazione sia davvero un fattore di
sviluppo. Se a dominare il quadro restano i ricchi, finisce che lo
stesso welfare state ne soffre perché ai ricchi non interessa la
copertura assicurativa pubblica. Vede perchè sono interconnesse
globalizzazione e diseguaglianze? » Lei “nasce” matematico. Quali sono i
conti attuali delle diseguaglianze?
«Ho combattuto battaglie
strenue perché l’occidente non si facesse illusioni. Nel 2011 la Banca
Mondiale mi ha finalmente ascoltato e ha portato da un irrealistico
dollaro al giorno a 1,90 la soglia di povertà. Di colpo i poveri
balzarono da 1,3 a 1,8 miliardi, oggi fortunatamente si sono ridotti,
secondo questo standard, a 887 milioni. Un numero ancora gigantesco,
inaccettabile. Il benessere e l’egoismo dei pochi al top sono una
minaccia alla sopravvivenza di tutti gli altri».
Nel suo ultimo
libro The Great Escape (“La grande fuga”, pubblicato in Italia dal
Mulino nel 2015) lei racconta proprio la disperazione e
l’inarrestabilità di questa marea umana che si riversa da sud a nord.
C’è qualche rimedio? Forse gli investimenti in loco proposti dall’Italia con il migration compact?
«Vede,
mandare incentivi a quei Paesi ha avuto certo grandi effetti positivi.
In India quattro quinti delle donne vanno a scuola, delle loro madri
solo la metà. Un bambino dell’Africa sub-sahariana ha più possibilità di
arrivare al suo primo anno di vita di quante non ne avessero i figli
dei minatori dello Yorkshire, qual era mio padre, un secolo fa (sia il
nonno che il padre di Deaton lavoravano nella miniera di Thurcroft, una
delle più pericolose, chiusa nel 1991, ndr). Il problema è che spesso i
fondi di solidarietà indirizzati nei Paesi più disagiati del pianeta - e
parliamo di aiuti dell’ordine dei 100 miliardi annui - o rispondono a
interessi dei donatori o finiscono nelle tasche di qualche potentato
locale senza arrecare benefici adeguati alla popolazione interessata. La
globalizzazione sana è un’altra cosa, e potrebbe essa sì contribuire al
riscatto di quelle aree: dovrebbe preoccuparsi di diffondere sia
infrastrutture di base come autostrade o linee telefoniche, che
conoscenza e formazione. È un vero prendersi cura con partecipazione
delle vicende del resto del mondo, anche le più imbarazzanti. E non
lasciare che il destino degli individui sia affidato al caso. Finché la
vita offrirà opportunità o fortune che non tutti possono afferrare, il
progresso creerà fatalmente diseguaglianze, e non distribuirà equamente
la possibilità di vivere a lungo con tranquillità. E altrettanto
imperfetta sarà la globalizzazione».