La Stampa 6.7.16
Massimo D’Alema
“Se Renzi perde non ci sarà il vuoto. La Carta si può cambiare in 3 punti”
D’Alema: in Parlamento possibili altri governi per riforme chiare, rapide e condivise
intervista di Fabio Martini
Il
vento politico sta girando, radio, tv e giornali sono tornati a
cercarlo e in questo improvviso revival Massimo D’Alema si ancora ad una
certa materialità della politica: «Mi chiedo come faranno i cittadini
ad orientarsi in vista del referendum sulla Costituzione. Devono votare a
favore o contro un libro...». Un libro? D’Alema - seduto alla scrivania
della Fondazione ItalianiEuropei - mostra un opuscolo: «Questo è il
volumetto di parecchie pagine, che la Camera dei deputati ha pubblicato
con tutte le modifiche alla Costituzione. Un testo farraginoso e
confuso, di difficile comprensione persino per i tecnici, figurarsi per
un cittadino. Sarebbe stato corretto formulare diversi ddl per i punti
della riforma e consentire ai cittadini di rispondere ai quesiti, con un
si o con un no, ma evidentemente si è preferito impostare il referendum
come un plebiscito».
Quasi inevitabile che Renzi enfatizzi un atteggiamento del tipo: dopo di me il diluvio. Sta nel gioco?
«No.
Si vota sulla Costituzione e si dovrebbe farlo con un confronto sereno
anziché in un clima di paura, dominato dal preteso rischio di
ingovernabilità e addirittura di recessione di cui Confindustria si sta
facendo portavoce. Ma attenzione: in questa fase l’opinione pubblica, se
si sente ricattata da una campagna palesemente menzognera, si irrita.
Se vincerà il No e Renzi insisterà nel volersi dimettere, dopo di lui
non ci sarà il diluvio, semmai il buonsenso».
Ma oggi un governo c’è e invece la vittoria del No cancellerebbe esecutivo e riforma istituzionale. Non è troppo?
«Anzitutto
io non chiedo le dimissioni di questo governo. Se cade questa
pasticciata e confusa riforma, il Parlamento non soltanto potrà non
essere sciolto - e da questo punto di vista confido nella saggezza del
Capo dello Stato - ma io credo che ci saranno anche un governo, se
necessario, e una nuova legge elettorale»
Chiedere a Renzi di restare dopo tutto quello che ha detto, non somiglia ad una provocazione?
«Le
dimissioni sono qualcosa che lui ha gettato nella mischia per ragioni
politiche, legittime, ma tutte sue. Per la verità nessuno chiede le
dimissioni di Renzi. Se non Renzi. E in ogni caso a quel punto si
potrebbe fare una riforma, condivisa, chiara e rapida»
Facile a dirsi...
«Penso
a una riforma che preveda tre articoli. Scritti in italiano, non in
politichese. Primo: è ridotto il numero complessivo dei parlamentari.
Duecento deputati e cento senatori in meno. Avremmo una riduzione di
trecento parlamentari, con il vantaggio che non ci sarebbero
“dopolavoristi”, destino che invece attende consiglieri regionali e
sindaci secondo quanto previsto dalla riforma».
Articolo 2 e articolo 3?
«Articolo
secondo: il rapporto fiduciario del governo è solo con la Camera dei
deputati. Dunque, fine del bicameralismo perfetto. Articolo terzo: nel
caso in cui il Senato o la Camera apportino delle modifiche ad un testo
di legge, tali modifiche vengono esaminate entro un tempo limitato da
una apposita commissione, costituita dai parlamentari dei due rami. Se
l’intesa non c’è, passa il testo prevalente, che viene sottoposto al
voto delle due Camere, con sbarramento ad ulteriori emendamenti. Fine
della navetta, del bicameralismo perfetto e delle perdite di tempo. Un
meccanismo di questo tipo esiste in altri Parlamenti: per esempio in
quello americano. Una riforma approvabile dai due terzi dei
parlamentari, che si può fare in sei mesi. Nel frattempo si discute una
nuova, seria legge elettorale, che non preveda più la nomina dei
parlamentari da parte dei capipartito e non abbia una impostazione
rischiosamente iper-maggioritaria. Non ho mai condiviso l’Italicum e non
penso che sia pienamente rispettosa della sentenza con cui la Consulta
ha cancellato il Porcellum».
Ma perché tutto questo “ambaradan” se
una riforma costituzionale già c’è? Nessuno dice che siamo alla Terza
Repubblica, ma non è meglio che niente?
«Ho avanzato una proposta
alternativa. E chiedo un No al referendum per fare seriamente le riforme
e non impedirle. Le riforme serie sono quelle condivise e non imposte a
maggioranza. Ricordo un bellissimo intervento dell’onorevole Sergio
Mattarella, che contrappose lo spirito della Costituente alla pretesa
arrogante, allora di Berlusconi, di riforme a maggioranza. E noi le
respingemmo».
Se la riforma interpreta bene l’urgenza di un cambiamento, il bon ton può non essere essenziale. O no?
«Non
è solo questione di bon ton. Ridurre la Costituzione a legge ordinaria
non va bene per il Paese perché diventa una riforma di incerta durata.
La Costituzione deve essere un testo stabile, di regole scritte da
tutti. I grandi Paesi hanno costituzioni che durano molti anni, ma se
noi ad ogni mutare di maggioranza politica, cambiamo la Costituzione, il
sistema vive nel massimo di incertezza. E comunque, almeno, la
maggioranza di Berlusconi era espressione forte di un voto popolare».
Ma nel merito?
«Ci
sono disposizioni demagogiche e altre foriere di conflitti
istituzionali. Due soli esempi: sindaci e consiglieri regionali possono
trascorre cinque giorni a Roma nelle commissioni parlamentari? Pura
demagogia. Per potere dire: non gli pagheremo lo stipendio. Poiché non
vi è una chiara distinzione delle leggi delle quali si deve occupare il
Senato, noi rischiamo di aprire un contenzioso tra le due Camere, di
volta in volta risolto dalla Corte costituzionale. Per tutte queste
ragioni chiedo di votare no per una vera svolta riformatrice».
A
Torino l’importante consuntivo portato dal sindaco è stato una sorta di
variabile indipendente rispetto alla generica esigenza di cambiare: si
sente almeno un po’ solidale con Renzi, considerato da alcuni già
«vecchio»?
«Il Paese vuole novità, sperava che la novità fosse
Renzi ed è rimasto deluso e infatti sul voto ha pesato un sentimento
anti-Renzi. A Milano abbiamo vinto grazie all’impegno di Pisapia, che ha
fatto una campagna all’insegna: qui non si vota su Renzi».