Corriere11.7.16
Neri e bianchi in America: da Lincoln a Obama Perché c’è ancora la frattura?
di Massimo Gaggi
Abramo
Lincoln che nel 1862 abolì la schiavitù. Le leggi sui diritti civili e
sul diritto di voto introdotte da Lyndon Johnson negli anni Sessanta del
secolo scorso che avrebbero dovuto porre fine a ogni forma di
segregazione razziale, oltre a offrire ai neri pari opportunità nello
studio e nell’accesso al lavoro. Di battaglie per l’integrazione della
minoranza di colore la democrazia americana ne ha combattute tante, ma
difficoltà e resistenze sono sempre state enormi e la ferita della
questione razziale non si è mai rimarginata.
La miscela di
rapporti tra le diverse comunità del «melting pot» americano è cambiata
più volte negli anni, ma ha sempre mantenuto qualche fattore esplosivo:
dopo lo schiavismo, la segregazione delle «leggi Jim Crow» di fine
Ottocento. Dopo la segregazione, la discriminazione. E poi, ancora, la
povertà, il degrado urbano dei quartieri neri e, oggi, l’insofferenza
davanti ai controlli di polizia sempre più frequenti e rudi. Ricucire è
difficile anche perché, perfino davanti ai migliori tentativi di
integrazione, molti afroamericani non riescono a scrollarsi di dosso il
risentimento per il peccato originale che ha prodotto questa loro
condizione: la deportazione degli avi dall’Africa.
Quanto ai
bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è quasi
sempre un sentimento di diffidenza o la tendenza a mantenere le
distanze. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in
sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Perfino tra
neri con molti discendenti dei popoli del Corno d’Africa e del bacino
del Nilo che si sentono su un gradino più alto.
C’è il pregiudizio
contro i maschi neri che raramente riescono a costruire famiglie
stabili e la consapevolezza che - anche se pesano povertà, degrado dei
quartieri, scuole disastrate - a finire nel vortice del teppismo e della
microcriminalità sono soprattutto i giovani delle minoranze nere e
ispaniche. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per
molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole
evitare il dilagare del crimine.
Fino a quando gli eccessi degli
agenti non provocano rivolte tra i neri e anche nelle coscienze dei
bianchi. Le tensioni attuali, iniziate due anni fa dopo l’uccisione di
un ragazzo disarmato a Ferguson, fin qui non avevano prodotto incendi
paragonabili alle rivolte di Chicago e Tulsa dell’inizio del Novecento
(in tutti e due i casi ci furono una quarantina di morti e centinaia di
feriti).
E nemmeno con quelle degli anni Sessanta: il decennio
delle grandi speranze e delle grandi delusioni. Furono quelli gli anni
in cui gli Stati Uniti sembrarono a un passo dall’impresa di rimarginare
l’antica ferita: John Kennedy che imposta la riforma dei diritti civili
mentre Martin Luther King - siamo nel ‘63 - pronuncia davanti a una
folla immensa a Washington il suo celebre discorso: «I have a dream».
Qualche
mese dopo Kennedy viene assassinato ma Lyndon Johnson ne completa
l’opera: pari diritti alle urne, nelle società, sul posto di lavoro. Nel
1966 viene eletto il primo senatore nero. Nel ‘67 tocca al primo
giudice afroamericano della Corte Suprema. E’ anche l’anno di «Indovina
chi viene a cena?», l’ironico film con il quale Sidney Lumet cerca di
rompere gli steccati sulla questione dei matrimoni misti ormai previsti
dalla legge, ma che rimangono ancora un tabù nella società americana.
Ma
è anche l’anno della rivolta di Newark, alle porte di New York: 23
morti e 700 feriti dopo che la polizia aveva massacrato un tassista
nero. L’anno dopo, il 1968, le speranze d una convivenza più serena
vengono ulteriormente scosse dall’assassinio di Martin Luther King e
dell’altro Kennedy, Robert, lanciato verso la conquista della Casa
Bianca.
Le violenze della polizia hanno prodotto negli anni altre
rivolte, comprese le due che hanno insanguinato Los Angeles: quella di
Watts del 1965 - sei giorni di guerriglia, 34 morti, 1032 feriti e
l’intervento della Guardia Nazionale) e quella del 1992 dopo il caso
Rodney King (un altro tassista malmenato dalla polizia). Al limite della
guerra civile: quando tornò l’ordine sul campo erano rimasti 50 morti e
duemila feriti.
L’America ora teme che qualcosa del genere possa
succedere di nuovo e proprio negli ultimi mesi della presidenza Obama.
Il Paese ha più anticorpi - una vera classe dirigente nera capace di
mitigare le tensioni com’è già avvenuto a Baltimora dopo i primi
disordini successivi all’uccisione di un altro ragazzo nero disarmato. O
come è avvenuto a Charleston, in South Carolina, dove non si è
registrato alcun incidente dopo che un «suprematista» bianco ha fatto
strage di neri in una chiesa. Ma i tempi sono per certi versi più
difficili, le circostanze più insidiose. Oggi l’America è un Paese in
armi: 300 milioni di fucili e pistole su 320 milioni di abitanti. E la
diffusione dei video che provano gli abusi e a volte i crimini commessi
da alcuni poliziotti, suscitano ondate d’indignazione. Venti difficili
da controllare: c’è spazio per chi, come il killer di Dallas, va alla
ricerca di micce alle quali dare fuoco.
Nel 1921 i disordini di
Tulsa vennero spenti dopo giorni di guerriglia coi neri chiusi in campi
d’internamento. Solo ricerche storiografiche recenti hanno dimostrato
che quel conflitto fu assai più cruento, con molti neri massacrati anche
da civili bianchi che volavano su di loro in aereo lanciando candelotti
di dinamite. Cosa sarebbe successo, già allora in America, se il Paese
avesse visto le immagini di quei feroci bombardamenti?