Corriere 9.7.16
Piangere in pubblico
di Roberta Scorranese
Una
volta qui era tutta una valle di lacrime. Piangeva Ulisse, costretto a
stare lontano dalla patria e piangeva Penelope, costretta a stare
lontana da Ulisse; piangeva Patroclo e piangeva pure Achille, che prima
aveva rimproverato l’amico perché singhiozzava «come una bambina»;
piangeva persino il cavaliere Orlando, che si concesse anche un femmineo
mancamento.
E oggi? Oggi qui è tutta una valle di lacrime. Piange
Obama (durante il discorso sulle armi tenuto nel gennaio scorso alla
Casa Bianca) e piangeva (sempre al momento giusto) Bill Clinton;
piangono Barzagli e Buffon per l’eliminazione degli Azzurri all’Europeo
2016 (per non parlare del ct Antonio Conte) e piange la sconosciuta
espulsa dall’Isola dei Famosi; piange la sindaca di Roma e, cosa
interessante, secondo un sondaggio di «Opinium» diffuso dal Guardian ,
all’annuncio della vittoria del sì al referendum britannico che ha
scelto l’uscita dall’Unione Europea, quasi la metà della fascia di
giovani tra i 18 e i 24 anni ha pianto, a differenza degli adulti.
Piangono tutti, o quasi.
Il singhiozzo inarrestabile dei
calciatori dopo l’addio dell’Italia ai rigori contro la Germania ci ha
ricordato che (almeno nel consumo di fazzoletti) una parvenza di parità
tra i sessi il Novecento ce l’ha portata: il pianto in pubblico con
tanto di nota isterica (tipico dell’eroina sventurata dell’Ottocento)
appartiene sia agli uomini che alle donne. Anche se Nora Ephron, somma
sacerdotessa dei cuori spaiati, ammoniva: «Gli uomini che piangono
provano dei sentimenti, ma i soli sentimenti per i quali tendono a
essere sensibili sono i propri». E poi: sebbene fatte delle stesse
sostanze acquose e saline (pare strano ma la scienza del pianto resta un
mistero: lo facciamo da tristi e da felici, forse è un primitivo codice
di comunicazione non verbale, forse c’entra la quantità di
testosterone, forse no), le lacrime di Ulisse e quelle di Buffon sono
diverse.
Le prime sono state ben raccontate dallo scrittore Matteo
Nucci nel libro Le lacrime degli eroi (Einaudi): nel mondo omerico, gli
eroi non avevano vergogna nel piangere, perché era un modo per prendere
coscienza della propria fragilità e ripartire da qui per compiere gesta
epiche. Poi, però, Platone, nella Repubblica, mise un freno ai
singhiozzi, asserendo che il vero patriota ha bisogno di coraggio e di
ciglio asciutto. E «nel V secolo greco – scrive Nucci – ormai, chi
piangeva non poteva essere considerato un uomo». Ovviamente la «valle
lacrimarum» riaffiorò con altri mezzi e tutta la mistica medievale ci
racconta di gemiti di contrizione, sia maschili che femminili.
«Prendiamo il pianto di Sant’Ignazio di Loyola — suggerisce
l’antropologo Franco La Cecla —: è fatto di pentimento, afflizione per
il peccato. Una via alla redenzione. Diverso dal pianto puritano, di
matrice anglosassone, che è invece sete di onestà, trasparenza», un
fanatismo dell’autenticità. E così, nel ‘900, le lacrime private sono
diventate in qualche modo teatro aperto, una sorta di marchio di
integrità.
Ci si ricongiunge così al secolo scorso, dominato da
mezzi di comunicazione sempre più raffinati e pervasivi. Nel 1991 il
generale Norman Schwarzkopf, protagonista dell’operazione Desert Storm
nella Guerra del Golfo, scoppiò a piangere in favore di telecamera.
Subito i giornali presero a ipotizzare un suo imminente impegno
politico, associando le lacrime a una volontà di apparire
irreprensibile. E forse non è un caso che tre anni dopo, nel 1994, come
ricorda Tom Lutz in Storia delle Lacrime (Feltrinelli), la rivista Time
pubblicasse una foto dell’ex presidente George Bush, colto nel pianto
mentre era nel suo studio. Erano anche gli anni in cui il critico
americano Robert Hughes pubblicava il celebre saggio La cultura del
piagnisteo (tradotto da Adelphi) in cui affermava, in sostanza, che
siamo tutti figli di quel vittimismo (piagnone) di matrice puritana che
finisce per premiare il politicamente corretto in nome di una
eguaglianza utopistica nonché distorta. Ma, ragiona l’antropologo, anche
grazie alla televisione, il pianto ha potuto diventare una specie di
confessione seguita da assoluzione collettiva. E forse c’è un legame
sottile tra questa rigenerazione mediante le lacrime e quella che, in un
bel libro tradotto da Einaudi dal titolo Il pudore , Monique Selz
definisce la «dittatura della trasparenza», la frenesia del gioco allo
scoperto, del mostrarsi per intero sacrificandosi sull’altare di una
presunta limpidezza scambiata sovente per incorruttibilità.
«E di
sicuro – afferma La Cecla – ancora oggi si tende a identificare uno che
piange in pubblico come onesto e buono. Ma, sorpresa!, ecco che qui
tornano le differenze tra uomini e donne: queste ultime sono più
abituate a piangere, a loro è stato concesso nel corso dei secoli,
dunque conoscono bene tutte le sfumature teatrali del singhiozzo. È
proprio per questo che non si fidano della lacrima pubblica. Cosa alla
quale, invece, gli uomini spesso finiscono per credere, perché meno
attrezzati a comprenderne le dinamiche».
La conclusione? Noi donne
non ci caschiamo. E così si spiegano sia la palpebra secca di politiche
di primo piano come Hillary Clinton, sia l’aumento esponenziale di
maschi gementi. Un’eccezione però si può fare: quelle di Buffon e di
Conte con ogni probabilità sono state lacrime vere. A chiunque avesse
lottato fino all’ultimo rigore sarebbe venuto da piangere nel vedere
l’allegro sfottò di Pellé a Neuer, subito punito dal portiere tedesco.