Corriere 2.7.16
I centri per le donne lasciati senza fondi
di Luisa Pronzato Elena Tebano
Il
23 giugno ha chiuso Casa Fiorinda, l’unico rifugio per donne
maltrattate di Napoli. Tre giorni prima aveva serrato le porte il Centro
antiviolenza Le Onde di Palermo, che adesso riesce a garantire solo
l’ascolto telefonico. Il 26 giugno è toccato a Sos Donna H24 lo
sportello del Comune di Roma che prendeva in carico 24 ore su 24 le
vittime di abusi. Lo stesso potrebbe succedere il 30 luglio, sempre a
Roma, al centro Colasanti-Lopez. A Pisa quello gestito dalla Casa della
Donna ha dovuto limitare drasticamente i servizi, dopo un taglio del 30%
ai fondi. Come Arezzo: ridotto il servizio di ascolto e di
reperibilità, chiusa una casa rifugio. Nel 2013 quando fu approvata la
legge sul femminicidio, non c’era partito politico che non avesse speso
parole pesanti sulla necessità di combattere la violenza sulle donne.
Tre anni dopo tanti dei 75 centri della rete nazionale Dire sono in
difficoltà per mancanza di soldi.
Colpa di un sistema di
assegnazione che ha portato molti dei finanziamenti di quella norma a
perdersi nelle maglie della burocrazia. «I fondi per il 2015 e il 2016,
circa 9 milioni all’anno stanziati con la legge di Stabilità, non sono
ancora stati erogati: stiamo aspettando la conferenza Stato-Regioni che
decida cone ripartirli. Non si sa quando» dice Rossana Scaricabarozzi,
di ActionAid Italia. Ci sono quelli per il biennio 2013-2014: 16,5
milioni di euro per tutte le Regioni.
La legge del 2013 stabiliva
che solo il 20% (circa cinquemila euro l’anno per ogni centro
antiviolenza e seimila per le case rifugio) andasse ai centri, gli altri
venivano girati alle Regioni che potevano destinarli a progetti
diversi: dalle strutture, ai progetti educativi, ai consultori generici.
«In Lombardia la Regione li ha messi a bilancio, eppure ai centri
antiviolenza quei soldi non sono mai arrivati», denuncia Manuela Ulivi
della Casa delle donne maltrattate di Milano. Non è l’unico caso.
Come
è possibile? Al momento nessuno lo sa. «Come governo, stiamo
verificando con le Regioni l’utilizzo dei fondi loro assegnati — dice la
sottosegretaria alla Presidenza del consiglio Sesa Amici —. E l’8 marzo
abbiamo emanato un bando diretto a finanziare le azioni di rete dei
centri antiviolenza, impegnando 12 milioni di euro». A seguire i soldi
ci ha provato la Rete Dire. «Abbiamo visto che spesso non c’è
trasparenza e i fondi non arrivano a destinazione — spiega la Presidente
Titti Carrano —. La scelta di regionalizzare ha prodotto problemi di
burocrazia e ha limitato il confronto con chi lavora nei centri».
Non
tutti le difficolta sono legate alla legge sul femminicidio. A Roma i
servizi chiusi dovevano essere finanziati con bandi comunali, ma
l’amministrazione commissariata ha deciso di non emanarne finché non ci
saranno le direttive per il nuovo decreto legislativo sugli appalti
pubblici. A Palermo ci sono stati errori, rinvii e ricorsi sul bando del
Comune. A Napoli un rimbalzo di responsabilità tra Comune e Regione che
attende dal governo i fondi delle politiche sociali. Il problema però è
simile: «I centri vanno avanti di progetto in progetto — dice Giovanna
Zitiello della Casa della Donna di Pisa —. Passiamo quasi più tempo a
fare bandi e cercare soldi che ad aiutare le donne». Si vince la gara,
dopo sei mesi o un anno si ricomincia da capo. Non c’è un sistema unico
in cui le strutture a che funzionano e hanno i giusti requisiti possano
ricevere fondi con continuità. «Manca una seria programmazione nazionale
sui servizi — riassume Tania Castellaccio di Casa Fiorinda—. Governo,
Regioni ed enti locali danno giustificazioni diverse ma per me che opera
contro la violenza il risultato non cambia. Poi è inutile indignarsi
quando una donna viene uccisa a colpi d’ascia o una ragazza bruciata».