martedì 12 luglio 2016

Corriere 12.7.16
La «e» di troppo nella Costituzione
Oggi è improponibile considerare la cultura distinta dalla ricerca scientifica e tecnica
di Andrea Moro

Il diavolo — si dice — sta nei dettagli, ma non ci ho mai creduto, anche perché cosa costituisca un dettaglio e cosa invece un elemento fondamentale non è poi così scontato capirlo. Se il nostro Paese non fosse impegnato nella proposta di revisione di punti centrali e complessi della Costituzione, oserei proporre la revisione di un altro articolo costituzionale, ovviamente sulla scala ridotta per la quale può esporsi un linguista — cioè sull’abolizione di una congiunzione — lasciando ad altri decidere se si tratti di dettagli o meno. Recita l’articolo 9, primo comma: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Sì: cultura e ricerca.
La congiunzione, nelle lingue umane, funziona così: prende due cose diverse e le considera insieme, ma le tiene distinte; donne e uomini, il bene e il male; una bandiera gialla e blu non è verde. Non potevano essersi distratti nel 1947 i Padri della Costituzione né qui né altrove, anche perché la presenza di un articolo specifico su questo tema mi risulta essere rara nelle costituzioni comparabili, il che fa escludere un omaggio dovuto o l’effetto di un goffo e anacronistico copia e incolla. Qualunque cosa sia la cultura per la nostra Costituzione, dunque, essa non comprende per definizione la ricerca scientifica (e tecnica; un’altra congiunzione sospetta, ma della quale non parlerei per non sembrarne del tutto ossessionato). Incassata la difesa di questi due aspetti del sapere tra i valori fondanti, rimane da chiedersi se questa congiunzione sia ancora pertinente e necessaria .
Naturalmente, va considerato che il dibattito epistemologico di quegli anni rifletteva una visione che oggi non sembra essere davvero condivisa, se non da chi pensa che l’uomo sia fatto per il sabato, cioè burocrati e molti di noi, professori universitari. Ma oggi? Ha ancora senso parlare di cultura e di ricerca scientifica come ambiti separati? Un certo sentore che la distinzione stia iniziando a diventare scomoda si ha nella presenza ubiquitaria — quasi un’intercalare — dell’aggettivo «interdisciplinare» nei manifesti ideologici e programmatici. Certo, a ben vedere, pare quasi che questa sbandierata interdisciplinarità consista invero nell’arte di ricomporre a unità quello che si trovava già congiunto per natura.
Sarebbe tuttavia stupido da parte nostra non riflettere sull’esigenza che aveva portato a sentire la ricerca scientifica come qualcosa di separato dalla cultura. È innanzitutto evidente che i domini del sapere si raggruppano anche per metodi affini e l’arte poetica non sembra avere troppo in comune con la chimica, dunque in un certo senso le distinzioni sono giustificate almeno sulla base di una convenienza pratica. Meno apprezzabile è tuttavia l’incoronazione di un dominio specifico a Cultura per antonomasia o, meglio, l’esclusione della ricerca scientifica da essa. Certamente noi italiani andiamo giustamente fieri dell’arte figurativa, sviluppata nei vari Stati che composero la Penisola nel passato, e dell’architettura e della letteratura e della musica: sono campi dove abbiamo dominato, influenzato, fatto scuola, coniato il gergo tecnico valido ancora oggi. Tuttavia, anche rimanendo all’ambito italiano, è difficile immaginare che radio, telefono, plastica, identificazione dei neuroni e dei fattori di crescita neuronali, fissione nucleare (tanto per citare alcuni esempi famosi) non abbiano influenzato la cultura — italiana e non — almeno tanto quanto l’invenzione della prospettiva o dell’opera lirica.
Ma il punto fondamentale, a mio avviso, sta nel comprendere che l’esigenza di una visione unificata del sapere, dove la ricerca scientifica goda di dignità culturale piena, non è solo una fisima di minor importanza. Mi pare evidente che oggi esistano sfide dove questa scissione sia di vero intralcio, tanto più quanto può stare alla base della progettazione dei percorsi formativi dei nostri giovani. Un esempio per tutti viene dallo studio sul linguaggio umano. Non c’è dubbio ormai che le regole distintive delle lingue umane — singolarità rispetto al linguaggio di «tutti gli altri animali», come diceva Cartesio — siano espressione dell’architettura neurobiologica del cervello. Ma come i neuroni computino queste regole non si sa ancora e comprenderlo rimane probabilmente una delle sfide più importanti mai poste. Il problema è che nella ricerca dei meccanismi neurobiologici occorre far ricorso a nozioni sviluppate tipicamente in quelle discipline della Cultura che sembrano così distinte da quelle della ricerca scientifica: l’indagine quantitativa che ha portato alla comprensione dei meccanismi fisiologici come la digestione o il funzionamento del sistema immunitario non basta più. Dobbiamo al momento accettare di far ricorso ad altre nozioni, come quelle di soggetto o predicato, che tipicamente vengono considerate come appartenenti all’altro polo del sapere, quello della Cultura, vien da aggiungere «umanistica».
La realtà, per fortuna, è più complessa delle leggi e dei programmi ministeriali di ogni tempo. Se la mentalità comune riflette questa partizione e soprattutto se la riflettono i programmi di formazione a ogni livello di istruzione, difficilmente riusciremo a vincere una sfida come quella della comprensione dei meccanismi neurobiologici del linguaggio e chissà quante altre. È il momento di fare un passo indietro e ricordarsi di quando anche un laureato di Fisica acquisiva il titolo di Philosophiae Doctor .
È bello, a questo proposito, notare che l’unità tra i due domini artificialmente distinti si manifesta anche in modi, almeno apparentemente, inaspettati. Come nessuno sa, ad esempio, quale sia la ricetta per una scoperta scientifica, allo stesso modo nessuno conosce quella per un capolavoro artistico: nella scienza come nell’arte vincono l’imprevisto e la fantasia, sorretti dalle spalle poderose del metodo. Non capita di rado di pensare alla nascita di una scoperta scientifica come a un racconto che si svolge nel tempo, con trappole, inganni, agnizioni, fughe e tradimenti, ma anche alleanze e, perché no, amori. È capitato a me con il verbo essere, non può non capitare ad altri con temi ben più appassionanti (per loro).
È in questo contesto di «interdisciplinarità» che mi auguro sia possibile non tanto ritoccare un articolo della Costituzione vigente, ma preparare i cuori e i cervelli di chi scriverà la prossima; ed è in questo stesso contesto che l’idea di premiare la «scienza narrata», come hanno deciso gli ideatori del Premio Letterario Merck, permette di considerare una nuova sensibilità per il valore culturale della ricerca scientifica un fatto e non più solo una speranza.