Avvenire.it 30.06.16
Il senso della vita è abitare il tempo che resta
di V. Rosito
La
percezione del tempo nelle prime comunità cristiane era fortemente
improntata dall'idea che la venuta del Signore sarebbe stata imminente e
definitiva. Alla luce di questa consapevolezza uomini e donne si
ritrovavano per spezzare il pane e per trasmettersi il dono dello
Spirito mediante il bacio reciproco: «Ogni volta infatti che mangiate di
questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del
Signore finché egli venga» (1Cor 11,26). Non è semplicemente un tempo di
attesa fiduciosa quello in cui i riti e i gesti vengono collocati e in
funzione del quale assumono colori e significati peculiari. Quello della
comunità dei credenti è un tempo che inizia a correre: questa è la sua
qualità più profonda e incisiva. Mangiare, lavorare, giocare, riposare
«finché egli venga» significa vivere immersi nella coscienza di un tempo
che resta, un tempo che assume una spinta e un'accelerazione avendo
ormai una direzione e custodendo un senso rivelato, sebbene non ancora
del tutto manifestato. L'accelerazione non è dunque estranea al tempo
marcato e inaugurato dall'incarnazione del Figlio di Dio. Il cosiddetto
tempo messianico è intrinsecamente accelerato nel senso che è un tempo
sensato. Ha una fine che si riverbera contestualmente nel fine, ovvero
nel senso delle azioni e delle imprese di coloro che lo abitano.
L'accelerazione cristiana del tempo non è ansiogena, né mette fretta
perché plasma non la quantità delle azioni che si possono o si devono
compiere in un determinato periodo, bensì la qualità delle opere e delle
imprese umane che possono essere finalmente direzionate.
L'accelerazione del tempo cristiano si perverte quando non è più in
grado di esprimere la sensatezza delle pratiche in funzione del tempo
che resta, lasciando libero campo al tempo che manca. La percezione che
gli individui hanno del tempo all'interno delle complesse società
globalizzate è ravvisabile nell'idea di un tempo che manca in maniera
assoluta e a-finalistica. Abbiamo la sensazione di non avere tempo
sufficiente per le molte cose che dovremmo fare e ci rendiamo conto che
ci manca oggettivamente il tempo per svolgere le molteplici azioni del
quotidiano. Il tempo che manca, a differenza del tempo messianico, non
si accorcia in funzione del proprio fine, ma è semplicemente poco,
troppo e drammaticamente poco. L'accelerazione diventa così cieca, senza
respiro, si fa accumulazione compulsiva di eventi e di azioni senza
dischiudere un orizzonte finalistico e conclusivo di senso. Fa
riflettere come negli ultimi anni l'accelerazione sia diventata oggetto
di analisi e di ricerche nel campo degli studi filosofici, sociologici e
compaia contestualmente in diversi documenti del magistero ecclesiale.
Si parla ad esempio di un vero e proprio paradigma dell'accelerazione
sociale (Social Acceleration Theory) che ha nel filosofo e sociologo
tedesco Hartmut Rosa uno dei massimi esponenti. Nelle ricerche di questo
autore l'accelerazione diventa una categoria dell'analisi sociale
proprio perché la percezione e l'organizzazione del tempo influiscono
sulla creazione degli spazi e in ultima istanza sulle relazioni
interpersonali e sui rapporti di potere. L'avere poco tempo a
disposizione non è dunque una mera percezione individuale. Per Hartmut
Rosa infatti l'accelerazione è reale perché scaturisce prima di tutto
dai mutamenti tecnologici. Può essere definita accelerazione tecnologica
quella crescita esponenziale della velocità dei processi di produzione o
di comunicazione nelle società contemporanee. A questa deve essere
affiancata l'accelerazione dei mutamenti sociali ovvero l'incremento con
cui cambiano e si susseguono mode, stili di vita e abitudini sociali.
Le istituzioni tradizionalmente affidabili, in quanto persistenti al
susseguirsi di più generazioni, diventano sempre più momentanee e
instabili. L'occupazione è un campo in cui l'accelerazione dei mutamenti
sociali è particolarmente evidente: le strutture lavorative della prima
modernità sopravvivevano a più di un generazione, si pensi alle diverse
aziende o attività lavorative a conduzione familiare. Fino agli anni
Settanta del secolo scorso invece il lavoro era quello di una vita
intera, era ancora in grado di segnare la biografia di un'esistenza
costruita attorno a un'unica e sola professione. Oggi infine l'impiego è
pensato per essere velocemente e più volte cambiato nell'arco della
medesima vita lavorativa. Solo alla luce di questi mutamenti si può
parlare di un'accelerazione dei ritmi di vita, ovvero della più comune
percezione di chi vive o sopravvive avendo poco tempo per fare tutto.
Stiamo dunque parlando dell'accelerazione indotta dalla logica del
multitasking, ovvero dalla necessità di fare più cose
contemporaneamente. Le singole azioni per unità di tempo si
moltiplicano, per questo il tempo viene drammaticamente a mancare. Non è
un caso che l'accelerazione sia la prima categoria diagnostica proposta
da papa Francesco nell'enciclica Laudato si': «La continua
accelerazione dei cambiamenti dell'umanità e del pianeta si unisce oggi
all'intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro, in quella che in
spagnolo alcuni chiamano rapidación (rapidizzazione)» (n. 18). Anche nel
testo dell'enciclica il lavoro compare nuovamente come campo
privilegiato .per la critica dei tempi «rapidizzati » di produzione, di
utilizzo e di consumo dei beni. L'accelerazione dei tempi di lavoro e
della durata di un impiego comporta la trasformazione radicale della
logica produttivistica intesa sempre più come competizione tra più
soggetti o comunità di individui. Alla luce di questi mutamenti il
lavoratore viene valutato e retribuito in funzione di una prestazione
facendo in modo che la sua opera, da luogo di liberazione e di
realizzazione, diventi un ambito totalizzante di alienazione. Mentre il
lavoro accelerato si perverte in una sorta di dipendenza dal lavoro
stesso, il tempo libero assume valore e significato solo perché è un
«tempo senza lavoro», vale a dire un tempo vuoto o svuotato. La vita
accelerata non ha bisogno soltanto di ritmi lenti e ben scanditi.
Abbiamo bisogno di « politiche del tempo», così come anche di azioni
pastorali o pratiche ecclesiali che partano dalla « superiorità del
tempo sullo spazio». Ciò significa inaugurare processi e aprire ambiti
di socialità in cui si integrino tempi e rapporti diversificati.
Decelerare non significa soltanto ridurre il ritmo o il numero delle
cose che facciamo, ma piegare il tempo della produzione al tempo della
socialità. Il tempo della prestazione a quello della presenza
conviviale, il tempo dell'autorappresentazione ecclesiale a quello della
comunione-koinonia.