martedì 7 giugno 2016

Repubblica 7.6.16
Perché vale la pena di scommettere sull’Iran
di Roberto Toscano

L’ACCORDO (5+1, ma soprattutto gli Stati Uniti, da un lato; l’Iran dall’altro) che lo scorso anno ha messo fine al lungo negoziato sulla questione nucleare iraniana ha aperto incoraggianti prospettive sulla fine dell’isolamento di un Paese importante dal punto di vista sia geopolitico che economico. Ma i mesi che si sono succeduti hanno rivelato che rimangono complessi interrogativi non tanto sul futuro dell’accordo stesso, quanto sulla possibilità che esso costituisca il punto di partenza di un processo di trasformazione con importanti conseguenze sia politiche che economiche.
Alcuni fra i massimi esperti internazionali sull’Iran contemporaneo hanno cercato di dare risposta a questi interrogativi nel corso di un convegno organizzato dal Centro Italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo) che si è svolto a Milano il 31 maggio. Lo stesso titolo del convegno (“Scommessa Iran”) riassumeva molto efficacemente lo stato attuale della vicenda iraniana. Una vicenda in cui si intrecciano non soltanto equilibri internazionali, interessi e ambizioni dei singoli Paesi della regione, ma anche dinamiche politiche. Quelle interne della Repubblica Islamica, ma anche quelle che emergeranno nell’America del dopo-Obama.
Il popolo iraniano non solo ambisce ad interagire col mondo sulla base di un riconoscimento del peso sia economico che culturale di un Paese dalle grandi tradizioni, ma — come ha rivelato la schiacciante maggioranza che ha determinato l’elezione di Rouhani alla presidenza — è convinto della necessità di passare dal confronto al dialogo, dall’isolamento a un’interazione e integrazione nella comunità internazionale.
Le difficoltà e le incertezze, tuttavia, non mancano, e gli esperti intervenuti ai due panel sui quali si è articolato il convegno le hanno affrontate in modo dettagliato. L’accordo nucleare è stato raggiunto nella misura in cui rifletteva interessi e priorità dei due interlocutori sostanziali: da un lato la necessità per l’Iran di togliere la pesante ipoteca delle sanzioni, dall’altro la convinzione da parte americana che andasse rimosso un problema che sia minacciava l’obiettivo della non-proliferazione sia manteneva aperta l’inaccettabile prospettiva di un’altra guerra americana in Medio Oriente. In politica internazionale, tuttavia, non esiste alcun automatismo fra esigenze obiettive e conseguimento dei risultati: serve la giusta leadership politica.
Sappiamo che un accordo era praticamente pronto nel 2003, quando il presidente iraniano era il riformista Khatami, ma a Washington c’era George W. Bush, che allora lasciò cadere proposte iraniane che, si vede oggi, coincidevano in larga parte con l’accordo raggiunto dodici anni dopo. Il problema si invertì poi con Ahmadinejad, nel senso che Obama non poteva certo trovare in lui un interlocutore disponibile.
Solo la contemporanea presenza di Obama a Washington e Rouhani a Teheran ha permesso di sbloccare un’intesa. Proprio per questo al convegno si è accennato alle incognite che l’imminente cambio di inquilino alla Casa Bianca potrà aprire anche sui rapporti con l’Iran. Pur volendo mettere da parte l’inquietante prospettiva di un presidente Trump, rimane evidente che ben difficilmente Hillary Clinton, come ha dimostrato la sua azione come Segretario di Stato, potrebbe manifestare nei confronti dell’Iran lo stesso grado di apertura di Barack Obama.
Ma non si tratta solo dei possibili sviluppi a Washington. In vari interventi del convegno si sono affrontate le complesse dinamiche della politica interna iraniana. L’accordo nucleare, si è detto, era un obiettivo condiviso anche al di là delle pur profonde contrapposizioni di ideologia e strategia che esistono all’interno del regime. Quello che invece è tutt’altro che condiviso è il discorso sul “dopo-accordo” nel senso che, mentre per la coalizione centrista-riformista che sta alla base della presidenza Rouhani il metodo del dialogo con America e Europa dovrebbe essere esteso a altri temi, le correnti più conservatrici temono che in questo modo si possa innescare un processo di cambiamento interno che potrebbe risultare difficilmente controllabile.
E qui si situa il ruolo del Leader Supremo, decisore ultimo del regime che ha dato il proprio indispensabile assenso al negoziato nucleare e alla sua conclusione, ma che ha sempre temuto, e ora in particolare, che il processo di apertura esterna possa trasformarsi in una sorta di “cambiamento di regime soft”. Va poi aggiunto che nel complesso sistema iraniano esistono centri di potere che non dipendono dal governo e dalla leadership presidenziale: i Guardiani della rivoluzione, i Pasdaran; una magistratura in buona parte su posizioni conservatrici; un clero diviso ma con un vertice spesso molto sospettoso di un contatto “inquinante” con il mondo esterno.
Un punto affrontato in particolare dall’intervento del manager di una consulting internazionale, Bijan Khajehpour — ma condiviso da tutti i partecipanti — si è riferito alla dimensione economica. Non solo perché le considerazioni economiche sono state alla base della decisione del regime e del consenso popolare rispetto al conseguimento dell’accordo nucleare, ma perché ora la presidenza Rouhani deve dimostrare che gli auspicati effetti positivi di un accordo non erano illusori, ma si traducono in realtà tangibili. Qui risiede forse il nodo più delicato, dato che oggi risultano evidenti grandi ritardi, dovuti anche alle difficoltà ed inefficienze dell’economia iraniana, ma soprattutto alla lentezza con cui da parte americana vengono applicati gli impegni sulla rimozione delle sanzioni.
È soprattutto una persistente incertezza fra il permesso e il non-permesso (un’incertezza che non viene risolta dai competenti organismi americani) a frenare quella che senza dubbio è l’intenzione di molte società europee — e in prima fila italiane — a rilanciare i rapporti economici con l’Iran.
Si tratta di problemi certamente complessi, tali da sconsigliare di lasciarsi andare ad imprudenti entusiasmi. Ma pur da diversi punti di vista gli esperti internazionali che hanno partecipato al convegno si sono trovati d’accordo su conclusioni di un cauto ottimismo sulle prospettive future. Vale la pena di puntare sulla “scommessa Iran”.
L’autore è diplomatico e scrittore già ambasciatore in Iran e in India