La Stampa 4.6.16
Marco Bellocchio
“Ho condiviso le battaglie di Pannella. Ora i 5 Stelle sono i suoi successori”
Il regista: “Mi commuovo per le aperture del Papa sul tema della carità e dell’abbattimento dei muri”
intervista di Fulvia Caprara
Da oggi al 12 giugno ad Asti il festival diretto da Alberto Sinigaglia mette a confronto l’anno in corso con uno della storia: questa volta «1936-2016: il consenso, la menzogna e la guerra». Tra gli ospiti Maurizio Molinari, Ferruccio De Bortoli, Sergio Romano e domani il regista Marco Bellocchio.
Marco Bellocchio è un regista in perenne movimento, per descriverlo si dovrebbero usare parole come ricerca, curiosità, attenzione agli altri, apertura verso il cambiamento. Per questo, negli anni, è riuscito a evitare le etichette scontate che, dai tempi dei «Pugni in tasca», in tanti hanno cercato di attribuirgli. Per questo, a differenza di molti altri autori, è una persona che, oltre a dare risposte, fa tante domande. Per questo i soggetti dei suoi film, soprattutto nell’ultimo periodo, sono diversi e imprevedibili.
A ottobre arriverà nelle sale «Fai bei sogni», basato sul best-seller di Massimo Gramellini, intanto l’autore sta preparando il film dedicato al super-pentito Tommaso Buscetta, senza dimenticare le esperienze del passato, come quella di «Vincere» (di cui parlerà domani a Asti nell’ambito del Festival Passepartout) e lasciando aperta la finestra sull’attualità, su quel mutare che lo coinvolge sempre, in prima persona.
Presentando il film su Buscetta ha parlato di tradimento, argomento che aveva affrontato anche ai tempi di «Vincere», dove Mussolini era insieme traditore di una donna e traditore della patria. Perché è importante raccontare il tradimento?
«La storia è piena di traditori, lo sono stati tutti i grandi protagonisti della Rivoluzione Francese che hanno tradito il giuramento al Re, lo sono stati quelli del Sessantotto che hanno tradito la loro educazione e i loro principi e poi, nel dopoguerra, ce ne sono stati tanti altri... Su Giuda sospendo il giudizio. Buscetta ha detto di aver tradito perché i primi a farlo erano stati i boss di Cosa nostra, venendo meno alle loro stesse regole di appartenenza».
Tradire significa contraddirsi, cambiare posizione, cose che avvengono spesso, sia fra i politici che fra gli intellettuali.
«Oggi sono tutti giocolieri della parola, ci possono essere posizioni singole più estremiste, ma nei partiti che governano l’Italia prevalgono liberalismo diffuso e un certo vagante radicalismo di sinistra. Quello che colpisce è che gli estremisti di destra, come quelli di CasaPound, come Matteo Salvini, dichiarano cose bestiali per poi correggersi immediatamente dopo».
Effetti della propaganda, favorita dallo sviluppo della comunicazione, proprio a iniziare da Mussolini e dal fascismo.
«Sì, quella fu una vera rivoluzione. Nell’Europa occidentale il Duce fu il primo a intuire la potenza della propria immagine. Prima di lui, a parte Garibaldi, i politici come Crispi, Nicotera, Giolitti, erano uomini di grande potere, ma con volti assolutamente anonimi. Mussolini, invece, impose la propria immagine, proprio attraverso il cinematografo, la radio, la fotografia, e questa fu un’assoluta novità storica. Fecero così Hitler e, in forma più precaria, anche Lenin e, soprattutto, Stalin».
Oggi la propaganda ha a disposizione strumenti potentissimi, web in testa.
«Certo, e il suo potenziale è mille volte più aggressivo, diffuso, istantaneo. Prima c’erano le edizioni straordinarie dei giornali, ma non sono paragonabili all’enorme diffusione di smartphone e simili, adesso l’informazione dilaga, facendo venir fuori cose che prima restavano chiuse in luoghi interni, è una specie di bomba atomica, un magma in cui i giovani di oggi sono immersi. Personalmente mi sono autoescluso da tutto questo, ma mi colpisce molto l’istantaneità, per esempio delle notizie di morti. Mentre prendi un caffè al bar puoi venire a sapere che è mancato Albertazzi, oppure Scola, e le reazioni sono lì, immediate».
Quali sono, secondo lei, gli effetti del sapere tutto e subito?
«La democrazia è più manipolabile, penso anche alla tv e ai talk show, ai tanti volti che appaiono spesso e poi scompaiono come meteore. Con quali criteri si invitano le persone? E perché accettano? Non so, Cacciari, perché va in tv? La mia impressione è che, se ci si va ogni tre sere, è inevitabile ripetersi, e lo spettatore lo capisce. Poi ci sono altri, come Pannella, che riusciva a essere sempre protagonista».
In che modo?
«La sua forza derivava dalla coerenza morale, da non deflettere mai dai propri principi. Accettava le alleanze tattiche, ma le sue idee restavano le stesse, la sua anima non veniva scalfita. Da laico, ho condiviso le sue battaglie, mi trovavo sulla sua lunghezza d’onda e mi sembra chiaro che, in modo diverso, più pragmatico, il Movimento 5 Stelle ne sia il successore».
E di Renzi cosa pensa?
«Vive molto nel presente, è un politico moderno, mi fa ridere Crozza quando ne fa l’imitazione, ma non sono tra quelli che lo demonizzano. Per esempio, a proposito del referendum costituzionale, penso che si sia partiti da un’istanza che tutti sentivano e, anche se è una riforma azzoppata, voterei per il sì. Non credo che in Italia ci sia il pericolo della dittatura».
Ha detto «da laico», ma ultimamente, in vari punti delle sue opere, c’è chi ha intravisto segnali di un atteggiamento nuovo nei confronti della religione.
«Con l’età il mio animo può essere cambiato, posso commuovermi davanti a certe aperture del Papa sul tema della carità e dell’abbattimento dei muri... Il sentimento vero dell’accoglienza è soprattutto nelle sue parole, e questo è apprezzabile. I partiti, invece, sono tutti più prudenti, sulla difensiva. Io comunque resto laico, nell’aldilà non credo, anche se alcuni sacerdoti, come Virginio Fantuzzi, intravedono nei miei film messaggi di un cammino verso un’altra direzione».
Oggi la posizione sui migranti fa la differenza.
«Si, ed è ipocrita chi dice: “Rimandiamoli a casa loro”. Le migrazioni invaderanno la storia per i prossimi cinquant’anni. E mi dispiace che certe forze politiche cerchino consensi battendo sul lato peggiore delle persone, consensi usando cinismo e falsità».
Guardare sempre avanti significa non avere nostalgie. Per lei è così, anche nei riguardi dell’attuale politica italiana?
«Viviamo nel 2016, bisogna partire da quello che c’è, non mi viene da piangere pensando ai vecchi giganti della politica come Togliatti, Nenni, Saragat e, anche se può essere affascinante raccontarla, non ho rimpianti per l’Italia scomparsa».
Però la Storia e le storie le piacciono.
«Sì, mi piace ascoltare, da vero provinciale, mi piaceva, a suo tempo, sentir parlare Moravia, e poi Scola, Monicelli, Scarpelli, Sonego... Avevano una straordinaria capacità di racconto, anche ironizzando, anche esagerando».
Repubblica 4.6.16
Novecento
“Volevo mostrare a Pasolini che l’utopia era possibile”
Incontro con il regista premio Oscar nell’anniversario del film, diviso in due atti, con Robert De Niro Gérard Depardieu, Stefania Sandrelli e Dominique Sanda
intervista di Arianna Finos
ROMA «Novecento è nato qui». Bernardo Bertolucci allunga le braccia verso il grande salotto, come potesse toccare i ricordi e le pareti fossero impregnate delle conversazioni con il fratello Giuseppe e l’amico Kim Arcalli. Dalla casa studio del regista a Trastevere prese vita un progetto epico. Tre anni di lavorazione, cinque ore di film per raccontare mezzo secolo di storia d’Italia tra lotta di classe e sentimenti. Novecento monopolizzò il Festival di Cannes, nel maggio di 40 anni fa. «Partimmo da un’idea semplice. Nel 1900 nascono due bambini: il figlio dei padroni e quello dei contadini. Si chiamano Alfredo, in omaggio a
Traviata, e Olmo, in omaggio agli alberi sterminati in quell’epoca da una grave malattia».
Il film si apre con la morte di Verdi ed è concepito in due atti, come un’opera.
«Abbiamo pensato di contenere tutto il periodo che va dal 1900 al 1945 nel giorno della Liberazione, il 25 aprile. Il tempo dei contadini è scandito dalle stagioni. Così pensammo a una grande estate per l’infanzia. Poi i protagonisti crescono ed è autunno. Arriva il fascismo, l’inverno, il film si fa dark con i personaggi di Attila, Donald Sutherland e Regina, Laura Betti, che sono due veri mostri».
Per i due patriarchi, il nonno contadino e il nonno padrone, ha scelto Sterling Hayden e Burt Lancaster.
«Sterling, lo ricordavo in Giungla d’Asfalto e nel Dottor Stranamore, arrivò da Roma a Parma su una vecchissima moto Triumph. Prima di ogni ciak lo trovavamo sdraiato sotto qualche albero a farsi una canna. La sera in cui doveva incontrare Lancaster, Sterling era nervosissimo. Beveva vodka e rimetteva in continuazione lo stesso brano di Barry White & Love Unlimited. “Tremo all’idea di incontrare Lancaster, è un uomo tutto d’un pezzo, troppo per bene, per me” insisteva lui. Burt Lancaster mi regalò la sua interpretazione, recitò gratis: “Dopo questo film voglio andare in Tibet in una grotta a imparare il buddismo” mi confessò».
Poi è il momento di DeNiro e Depardieu.
«Quando ho concepito il film pensavo sarebbe stato un ponte tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Dopo il successo di Ultimo Tango avevo un po’ sbarellato, con qualche scivolata nella megalomania. Pensavo di poter fare ciò che volevo io, pensavo che il cinema potesse cambiare il mondo. Volevo un attore sovietico per Olmo, ma rifiutai di sottoporre la sceneggiatura ai russi e ripiegai sul giovanissimo Depardieu. Per il ruolo di Alfredo andai a Los Angeles, incontrai Robert DeNiro e Harvey Keitel, scelsi Bob per il suo aspetto più borghese. DeNiro a New York mi portò a un concerto di Bob Dylan e in taxi litigò con l’autista sull’itinerario: “Gira di là, non fare il furbo, guarda che ho fatto il tassista per tre mesi”, diceva. Era reduce da Taxi Driver ».
“Novecento” fu anche una risposta al pessimismo antropologico di Pasolini.
«Pier Paolo con i suoi saggi raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell’Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli che quell’innocenza contadina che lui riteneva sparita c’era ancora. Che i contadini emiliani erano riusciti a preservare, grazie al socialismo, la loro identità culturale. E poi volevo raccontare la grande utopia, la rivoluzione contadina. Novecento, distribuito da tre major americane, avrebbe portato negli Usa questo messaggio socialista. Invece la Paramount lo boicottò. Il presidente dichiarò: “Ci sono troppe bandiere rosse”».
In Italia quali scene vollero censurare?
«L’unica che mi chiesero di accorciare fu quella in cui la prostituta epilettica, Stefania Casini, è a letto tra DeNiro e Depardieu e prende in mano i loro membri. Ma io li ho imbrogliati, accorciando i fotogrammi ma prima che la cosa avvenisse. Così quel momento è rimasto nel film».
Il film è anche un omaggio alla sua infanzia tra i contadini, al mondo raccontato nelle poesie di suo padre Attilio.
«Fino a 12 anni ho abitato in campagna a casa di mio nonno. Accanto c’era la casa dei contadini, il civile e il rustico. Trascorrevo le giornate in questa grande famiglia. Era come se mi sentissi in debito con loro».
Fu con loro che lei scoprì la parola comunista.
«Durante la raccolta dei pomodori passa un camioncino con l’altoparlante: “Domani sciopero generale per la morte di Attila Alberti, ucciso barbaramente dalla celere di Scelba”. “Chi è?”, chiedo. La Nella si gira e mi dice: “Un comunista”. Poi mi racconta che ci sarebbe stata la rivoluzione, avrebbero appeso tutti i padroni ai rami degli alberi. “Anch’io?”, “No tu ti salvi perché sei un comunista” ».
Il Pci fu critico sulla scena del processo “cinese”.
«Fu penoso, per me. Volevo dedicare il film a Berlinguer. Invito il Pci alla proiezione. A metà film Pajetta è entusiasta, ma alla fine mi dice: “La seconda parte è un falso storico. Non c’è mai stato un processo ai padroni”. Mi è crollato tutto addosso. Rispondo: “Certo, il processo non c’è mai stato, ma questo è un film, è finzione, e racconta una grande utopia”. Ci voleva uno sguardo sofisticato per capire quel che volevo fare, i politici dell’epoca non lo possedevano. Mi sostennero i giovani della Figc, Veltroni, Borgna, Bettini….».
Progettò un Terzo atto...
«Dal 1945 al 2000, ma non l’ho mai girato perché non ho mai più ritrovato quel trasporto.
Novecento fu un successo ma il mio idealismo ne uscì frustrato. Oggi li chiameremmo format: la cultura contadina, la piccola borghesia, la lotta di classe…. Ma già mentre finivo il film, con l’assassinio di Pier Paolo e la morte di Aldo Moro, per me era svanita la possibilità di sognare in quella maniera».
Qual è il suo sguardo sull’Italia di oggi?
«Forse questo rinchiudermi in una magica caverna high tech è anche dovuto al rifiuto di quel che è diventata l’Italia negli ultimi anni. Forse preferisco starmene qui, con una realtà audiovisiva che mi arriva da tutto il mondo, e stranamente mi nutre, piuttosto che muovermi per Roma, città degradata e probabilmente impossibile da salvare».
C’è un film che vuole girare?
«Ci deve essere, lo sto cercando. Incontro produttori, mi propongono grandi progetti che rifiuto in trenta secondi. Voglio girare in “due camere e cucina”, come per Io e Te. Vivo un po’ isolato, ma sono affascinato dal presente, per esempio dalla possibilità di girare un film con il telefonino. Da giovani sognavamo la caméra- stylo, oggi è realtà».
La Stampa TuttoLibri 4.6.16
Il cinema di Ozu?
La cosa più simile al paradiso
Dalle corrispondenze sugli orrori della guerra alla passione per Hollywood, Lubitsch e Ford in testa
di Stefano Della Casa
Quando Wim Wenders presentò Tokyo Ga, il suo film giapponese dedicato a Yasujiro Ozu, gli venne chiesto il perché di quella scelta. Wenders non ebbe dubbi e rispose con una frase divenuta memorabile: «La cosa più simile al Paradiso che io abbia mai incontrato è il cinema di Ozu». Insieme all’altro aforisma «Il rock mi ha salvato la vita», è una frase che definisce perfettamente l’estetica di Wenders; al tempo stesso, è la prova di quanto il cinema di Ozu abbia fortemente influenzato il nuovo cinema che negli anni Sessanta caratterizzò tutte le cinematografie del mondo.
Oggi possiamo scoprire quanto Ozu sia stato, oltre a un regista straordinario, anche un grande teorico del cinema. Siamo in grado di farlo grazie a un volume, Scritti sul cinema, curato da Franco Picollo e Hiromi Yagi appena uscito presso l’editore Donzelli. Sono pagine che attraversano una trentina di anni, dal 1931 al 1962. Sono appunti scritti con linguaggio piano, appassionato che ci fanno capire perché Ozu sia stato al tempo stresso un grande conoscitore del cinema occidentale, particolarmente di quello hollywoodiano (Ernst Lubitsch e John Ford sono tra i registi più citati, ma l’elenco è molto lungo e variegato), pur essendo al tempo stesso un grande cultore delle tradizioni del suo paese. Nel periodo in cui Ozu scrive le sue note sul cinema c’è anche la guerra sino-giapponese prima e la seconda guerra mondiale poi, e il regista è coinvolto in prima persona in questi tragici eventi. Le sue corrispondenze non nascondono gli orrori («molti miei compagni sono morti»), propongono una precisione quasi maniacale nel descrivere i suoi spostamenti, esprimono sentimenti contradditori sul cinema: all’inizio afferma di voler fare un film sul conflitto (un film realista, diverso dagli altri), nel 1940 spiega perché non ha fatto un film sulla guerra.
Il cinema è una presenza costante nei suoi scritti. Si capisce che vede molti film hollywoodiani, si lancia in analisi sul modo di scrivere le sceneggiature da parte di Frank Capra o sulla recitazione di Shirley Temple. Però già nel 1940 afferma che «Mi pare che ormai dal cinema americano non ci sia più granché da imparare. Se proprio si vuole parlare di qualcosa che dobbiamo ancora apprendere, si potrebbero forse citare gli aspetti tecnologici, in particolare la tecnologia delle macchine da presa». Ma al tempo stesso Ozu osserva che in America, così come in Giappone, si fanno tre tipi di film: i film tratti da opere letterarie, i film dello star system (costruiti cioè su misura per gli attori famosi che li interpretano) e i film a colori. A questa tripartizione, Ozu contrappone i film che vuole fare e che saranno ispirati al realismo. Apparentemente - gli anni sono gli stessi - sembrano le stesse considerazioni che spinsero Rossellini a dare il via alla grande stagione del neorealismo. Solo apparentemente, però. In Giappone i conti con gli orrori della guerra e dell’atomica saranno fatti in un secondo momento. E lo stesso Ozu, parlando di uno dei suoi film più famosi, Viaggio a Tokyo (girato nel 1953), scriverà «Ho provato a dipingere la disgregazione del sistema famigliare in Giappone attraverso l’evoluzione dei rapporti tra genitori e figli nel corso del tempo: Tra tutti i miei film, questo è quello che ha una più marcata tendenza al melodramma». Tutto qui, niente di più. Una scrittura semplice ma densa di contenuti, proprio come è caratteristica del suo cinema.
Invano nei suoi testi si possono cercare citazioni di Akira Kurosawa (cita solo uno dei suoi film considerati minori, Cane randagio) o del suo amico Inoshiro Honda (l’inventore di Godzilla), forse i registi giapponesi più conosciuti dal grande pubblico. Sulla fama di Toshiro Mifune, a sua volta l’emblema dello star system nipponico, solo una citazione per dire che si tratta di un caso di «idolatria di massa». E quando nel 1959 lavora per Erbe fluttuanti con il direttore della fotografia Miyagawa (quello cui si devono le splendide carrellate di Rashomon, si limita ad annotare che «mi è stato molto d’aiuto». Però non ha dubbi, quando afferma che il cinema non ha una sua grammatica, una formula fissa. Quando uno inventa qualcosa di nuovo e il pubblico lo segue, quella diventerà la grammatica e andrà avanti fino a essere a sua volta sostituita. Per cui i giovani devono farsi valere, devono percorrere strade nuove. Ozu scrive queste note nel 1958. poco più di un anno dopo, Godard eTruffaut a trent’anni non ancora compiuti presenteranno Fino all’ultimo respiro, il film che più di qualunque altro ha cambiato la grammatica del cinema.