Repubblica 4.6.16
Il Libro Rosso di Ildegarda la donna che volò via dal Medioevo
Mistica, filosofa, poetessa, la badessa di Bingen visse nel XII secolo e illustrò le sue profezie che anticipano Jung
di Silvia Ronchey
«Simon
Pietro disse loro: Maria si allontani da noi, poiché le donne non sono
degne della Vita! Gesù disse: ecco, io la trarrò a me per renderla
maschio, perché anche lei divenga uno spirito vivo simile a voi maschi.
Perché ogni femmina che diventerà maschio entrerà nel Regno dei Cieli». È
il capitolo 121 del “Vangelo di Tommaso”, il più famoso dei testi
gnostici ritrovati nel 1945 a Nag-Hammadi. L’insegnamento lasciato
sepolto dal V secolo nell’apocrifo gnostico bizantino riaffiora in uno
scenario medievale tedesco. Siamo all’inizio del XII secolo, in riva al
Reno. La monaca benedettina siede davanti a uno scrittoio, sorretta
dall’alto schienale di una sedia. È pronta a scrivere o trascrivere
qualcosa: tiene in mano l’occorrente, due tavolette di cera nera a due
colonne ciascuna. È nera anche la veste claustrale, su cui è
drappeggiato
un mantello marrone, e le maniche della cotta bianca
stringono i polsi che reggono lo stilo. È lei stessa a ritrarsi così,
nella miniatura in cui la grande ruota del firmamento scintilla di
carminio e lapislazzulo, schiacciando in basso, in un piccolo riquadro
illuminato, il minuscolo autoritratto dell’autrice. Il viso è rivolto
verso la parte principale del foglio, che la sovrasta con la visione da
cui traboccano “squame di fuoco lucido”, a ferirla «sotto forma di
scintille».
Ildegarda, badessa di Rupertsberg presso Bingen
nell’Assia, studiosa di scienze naturali, di medicina e di musica,
nonché dello pseudo Dionigi Areopagita, scrittrice, compositrice,
teurga, drammaturga, era dotata di talenti multiformi e affetta da
violenti disturbi. «La forza delle visioni misteriose, segrete e
stupefacenti » la tormentava da quando aveva cinque anni. Tacere ciò che
vedeva e sapeva le aveva fatto trascorrere una giovinezza macerata
nell’ansia e diventare col tempo sempre più «misera e debole, figlia di
enormi sofferenze, tormentata da molte e gravi infermità corporali»,
come annota negli incipit dei suoi cosiddetti libri profetici, ora
tradotti nella raccolta che consegna integralmente al lettore italiano
le sue visioni: lo Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber
divinorum operum (Ildegarda di Bingen, Visioni, a cura di Anna Maria
Sciacca, prefazione di Enrico dal Covolo, Castelvecchi). Dettate da una
misteriosa voce e da lei solo compitate, per essere a loro volta
trascritte con l’aiuto del vecchio monaco segretario Volmar, le visioni
di Ildegarda sono affiancate in due manoscritti – quello di Wiesbaden,
perito nell’incendio del 1945 e sopravvissuto solo in copia, e quello
della Biblioteca Governativa di Lucca, identificato da Tritemio e ancora
oggi consultabile in originale – dalle formidabili esplosioni di forma e
colore delle miniature, che risalgono all’autrice e illustrano dal vero
i paesaggi di una frastagliata geografia dello spirito. Nel nastro
policromo dell’illustrazione scorrono incessanti le schegge visive,
“appuntite, piccole e grandi”, di una tradizione universale, si dilatano
“sfere d’ombra e cerchi di luce”, roteano mandala, si serrano
labirinti, si schiudono meandri, e le geometrie astratte si popolano di
figure ermetiche e di presenze animali. Un bestiario che si è tentato
invano di interpretare, accostandolo ora a quello dell’Apocalissi di
Giovanni, ora al medioevo fantastico delle cattedrali tedesche, ora ai
bestiari, agli erbari, alle tabulae della tradizione tardoantica, o
perfino alle allegorie della Commedia dantesca o al Libro rosso di Jung.
«Nel
millecentoquarantunesimo anno dall’Incarnazione di Gesù Cristo, quando
avevo quarantadue anni e sette mesi», si legge nella prefazione allo
Scivias, «un globo di fuoco abbacinante, proveniente dal cielo aperto,
invase tutto il mio cervello e pervase il mio cuore e il mio petto come
una fiamma che non ustiona, ma scioglie nel suo calore immenso».
Ildegarda udì una voce chiamarla homo: «L’uomo che ho voluto e ho scosso
per mio arbitrio e capriccio con meraviglie più grandi dei segreti
degli antichi», diceva la voce, «l’ho steso a terra, perché non si
rialzasse in esaltazione di spirito. Il mondo non ha prodotto in lui né
gioia né diletto, né progresso nelle cose che gli erano sue, perché l’ho
privato di qualsiasi aggressività e ostinazione, facendolo rimanere
timoroso e spaventato, senza alcuna sicu- rezza di sé, in preda al senso
di colpa». Fu così che Ildegarda si consentì di consegnare alle parole e
alle immagini ciò che fino ad allora non aveva «manifestato a nessuno,
ma serbato per tutto il tempo in silenzio». Impiegò dieci anni a
trascrivere ciò che in quei «momenti rovinosi del suo cuore » lei, uomo,
vedeva e sentiva non «secondo l’intelligenza dell’inventio umana e
nemmeno secondo la volontà di comporre umanamente, ma secondo il tenore
della parola così come è voluta, mostrata, descritta» da un’entità più
grande e profonda «che sa, vede e dispone ogni cosa nel segreto dei suoi
misteri»: secondo la visione «non del cuore o della mente, ma
dell’anima», còlta «non in sonno né in estasi», ma «da sveglia, con
occhi e orecchie umani», e però “interiormente”, in “luoghi scoperti”
dentro di sé. È in questo modo che Ildegarda diventò maschio e realizzò
il comandamento gnostico del Vangelo di Tommaso.
Nel secolo di
Federico Barbarossa, che consigliò e sfidò, e di Bernardo di
Chiaravalle, con cui corrispose e che la ammirò, ingaggiò le gerarchie
ecclesiastiche cattoliche con tale coraggio e tanta abilità da non
venirne mai considerata eretica, ma anzi eletta a autorità dottrinale e
ascoltata nei sinodi. Le sue prediche risuonavano a Treviri, a Colonia, a
Liegi, a Magonza, a Würzburg, a Metz; i suoi drammi e poemi sacri nelle
chiese di tutta Europa. Era detta la Sibilla del Reno anche per la
chiaroveggenza che esercitava in politica, quando imperatori e papi le
si rivolgevano a consulto, di persona o nelle lettere ancora oggi
conservate dal suo prezioso epistolario.
La scrittura “maschile”
di Ildegarda è solo uno degli esempi di quella grande e formidabile
tradizione femminile, fino a poco tempo fa misconosciuta o marchiata dal
sigillo della pura irrazionalità, che è la letteratura delle mistiche.
Ildegarda è solo un combattente, anche se indubbiamente di alto grado,
nell’esercito di donne colte e sofisticate, dal carattere libero e dalla
prosa superba, che da Eloisa a Margherita Porete, da Angela da Foligno a
Brigida di Svezia, da Caterina da Siena a Maria Maddalena de’ Pazzi, da
Margherita Maria Alacoque a Veronica Giuliani alle due Terese, d’Avila e
di Lisieux, ha sfidato le oppressioni della cultura dominante. Donne
che furono giudicate anoressiche, isteriche, forse epilettiche, ma
attraverso le quali l’intelligenza e l’indipendenza femminili hanno
sfidato secoli di oscurità. «È donna chi non ha l’intelletto maschio che
sradica dalla sua memoria tutte le passioni, che sono femmine, chi non
sa servirsi di quella sola collera, che è potenza dell’anima
distruttrice dei pensieri», aveva scritto nel quarto secolo Evagrio
Pontico nelle sue Centurie (47). In questo senso, quella delle sante
mistiche è il più grande esempio, forse, di letteratura autenticamente
maschile.