mercoledì 1 giugno 2016

Repubblica 31.5.16
Come guarire le ferite invisibili dell’anima
Gli animali portano le cicatrici sulla pelle, ed è un bene Invece gli uomini sono condannati ad averle all’interno
La memoria dei reduci di guerra studiata da Freud è l’esatto opposto di quella estatica raccontata da Proust
di Massimo Recalcati

Il metodo della psicoanalisi nella cura dei traumi: un estratto dal libro di Massimo Recalcati
L’esperienza della psicoanalisi si confronta regolarmente con la dimensione della violenza. L’analista rintraccia nel discorso del soggetto le ferite inferte dalla violenza dell’Altro; offese, esclusioni, insulti, rifiuti, tradimenti, indifferenza, silenzi, abusi, aggressività, odio. Quale memoria conserva nell’essere umano le tracce di tutta questa violenza? Nel corpo dell’animale le tracce della violenza dell’Altro sono visibili, appaiono nella forma delle cicatrici più o meno gloriose delle quali il corpo diventa una sorta di deposito.
La cicatrice è la forma che può assumere nel corpo animale la traccia della violenza dell’Altro.
Anche nel corpo dell’essere parlante la cicatrice può essere la memoria di una violenza, ma le ferite del parlessere — come Lacan chiama il soggetto — sono tendenzialmente invisibili. La violenza dell’Altro non si manifesta elettivamente attraverso la memoria della ferita, ma solo per la via di ferite che non possono cicatrizzarsi mai del tutto proprio perché invisibili. Nel mondo animale la cicatrice è memoria dell’offesa subita, ma è anche il segno della avvenuta estinzione dell’offesa. Il passato della cicatrice è in questi casi un passato “passato”. Per il parlessere, invece, le ferite invisibili provocate dalla violenza dell’Altro non passano, piuttosto scavano, erodono, bruciano, lasciano tracce mnestiche. La ferita è sempre viva, non cessa di spurgare. Il processo di cicatrizzazione non si compie mai definitivamente perché la ferita non è causata dagli artigli dell’altro animale ostile ma dai significanti di chi ha cresciuto la nostra vita.
Una frase, una parola, un insulto, ma anche un semplice gesto possono avere il potere di far sanguinare il corpo simbolico del soggetto, di provocare ferite impossibili da cicatrizzare, ferite per sempre vive.
Se la cicatrice sul corpo animale è il segno tangibile della memoria del passato, la ferita invisibile prodotta dall’azione traumatizzante del significante sul corpo del parlessere può generare una ripetizione attiva, un passato che non passa, un passato che insiste nel ripetersi sordamente.
La logica della cicatrice del corpo animale risponde all’idea di una archiviazione solo somatica del passato. L’animale porta sul suo corpo i segni delle offese subite ma in questo modo isola e archivia per sempre l’evento dell’offesa; lo incorpora, lo assimila come una parte del suo proprio corpo. Nelle ferite senza cicatrici, invisibili, che ricoprono il corpo del parlessere, la violenza, invece, non è archiviata ma lascia una traccia attiva che agisce la tendenza a ripetere il suo impatto ustionante.
In generale la psicoanalisi affronta lo scandalo della violenza a partire dal concetto di ripetizione: come può accadere che ciò che ha violato il soggetto tenda a ripetersi incessantemente?
Perché la violenza genera la sua ripetizione anziché la sua abolizione? È l’enigma clinico del trauma: perché ripetere quella che per il soggetto è stata evidentemente un’esperienza penosa? Perché non dimenticare, non rimuovere la lacerazione inflitta dall’evento traumatico? Perché — si chiedeva esplicitamente Freud all’indomani della fine del Primo grande conflitto mondiale — i soldati traumatizzati dalla guerra, anziché allontanarsi dai loro ricordi più penosi, sono nell’impossibilità di dimenticare? In quel caso è evidente come la difficoltà per il soggetto consista nel dimenticare ciò che riattiva la ferita, invisibile, aperta dall’evento traumatico. Si tratta del rovesciamento della dimensione estatica della memoria involontaria di Proust, per la quale esiste una dimensione indistruttibile del passato che tende a riemergere e a inondare il presente. Ma queste reminiscenze — questi ritorni del passato perduto — danno luogo a una gioia estatica più che a un turbamento, attivano una colorazione lirica della memoria piuttosto che mostrarne il carattere claustrale e traumatizzante.
Il passato che non si lascia dimenticare, così come entra in azione nel circuito della temporalità traumatica, non dà luogo ad alcuna estasi, né ad alcun ritrovamento del tempo perduto, ma segnala l’impossibilità per il soggetto di liberarsi da un peso opprimente, da una insistenza demoniaca, “al di là del principio di piacere” direbbe Freud, da una compulsione a ripetere che sottopone il soggetto a un giogo perpetuo. […] La violenza è la violenza della ripetizione che esclude il movimento della soggettivazione. È quello che viene messo in luce drammaticamente nelle forme della dipendenza cosiddetta patologica. In questi casi la violenza è provocata dal fallimento della “ripresa” soggettiva della ripetizione. La violenza consiste nel carattere inesorabile della ripetizione.
Per questo Lacan insiste nel presentare il soggetto dell’inconscio come una discontinuità rispetto all’automatismo della ripetizione. Sartre aveva ragione nella sua critica a Freud: la “personalizzazione” dipende dalla “costituzione” ma non è un suo effetto necessario. Ma come si può trasformare la violenza necessaria della ripetizione? In questione, come si vede, è il problema della soggettivazione nel suo rapporto con le procedure di assoggettamento. Come si eredita il proprio passato? Quando un passato diventa “proprio”? Può un passato diventare “proprio”? Cosa significa ereditare? Cosa significa provenire, discendere, venire dall’Altro singolarizzando questa provenienza? La trasmissione, per esempio, del desiderio da una generazione all’altra non può mai essere una mera ripetizione. Ereditare significa assumere soggettivamente la dimensione simbolica del debito. Per non ripetere lo Stesso non bisogna cancellare il debito perché tale cancellazione implica inesorabilmente che ciò che non è entrato nel simbolico, come direbbe Lacan, ritorni direttamente nel reale. La violenza è la violenza che esige la ripetizione dello Stesso. «Sono arrabbiata perché non c’è più nessuno con il quale essere arrabbiata », dichiarava una mia giovane paziente in un punto assai avanzato della sua analisi. Solo l’incontro con l’inesistenza dell’Altro — reso possibile dall’analisi — è la condizione perché vi sia una soggettivazione della ripetizione.
IL LIBRO Un cammino nella psicoanalisi di Massimo Recalcati (Mimesis pagg. 273 euro 20)