Repubblica 1.6.16
La delocalizzazione della nostra memoria
di Marino Niola
Il testo è parte dell’intervento di Marino Niola “ Da Pico ai Pixel. È vero che stiamo perdendo la memoria?” in programma domenica 12 giugno, alle 17.30, al Memoria Festival di Mirandola (9 - 12 giugno 2016)
L’UOMO digitale sta perdendo la memoria. Gli apocalittici lo danno per certo. Ma non è così. Le loro fosche previsioni non tengono conto della capacità adattativa degli esseri umani, perché di ogni grande trasformazione colgono solo ciò che si perde e non vedono ciò che si guadagna. In realtà, nella civiltà 2.0 ciascuno di noi ha a disposizione quote di memoria che non hanno precedenti nella storia. Ci portiamo un’intera biblioteca di Alessandria nello smartphone. E i Big data sono ormai una miniera di informazioni disponibili h24. Niente buchi, niente annebbiamenti, niente amnesie.
In verità il partito del bicchiere mezzo vuoto ha avuto anche esponenti illustri, in primis Platone, convinto che l’invenzione della scrittura, mandando in pensione la memoria orale, avesse reso tutti più smemorati. Ma si è visto che le cose sono andate diversamente. In effetti, allora come ora, siamo davanti a una delocalizzazione della memoria. Che smette di essere una proprietà personale, un gioco di sinapsi individuali, per trasferirsi su un supporto collettivo. In principio la tavoletta di cera o la pergamena, poi il libro, oggi il disco rigido.
Per capire davvero cosa ci sta succedendo forse bisogna tornare all’origine della parola memoria. Che nelle lingue indoeuropee, compresa la nostra, ha la stessa etimologia di amore, di cura e di sollecitudine. Insomma un insieme di testa e di cuore, di cervello e di sentimento, di attenzione e di strategia. Memorizzare non è solo una facoltà razionale, né una semplice capacità di immagazzinare e di custodire informazioni, ma un filtro emotivo, un motore di ricerca che conserva ed elabora ciò che in un modo o nell’altro ci sta a cuore. Infatti la parola ricordo deriva dal latino cor- cordis e significa custodire qualcuno o qualcosa nel cuore. È una ricordanza nel senso leopardiano del termine, un pensare per affetti e per effetti. Tant’è che il ricordo è selettivo. In certi casi vivido, netto e contrastato, in altri sgranato, annebbiato e sfuocato. E per descriverlo si usa da sempre il lessico dei sensi. Visioni, odori, sapori. Tutto quel che costituisce il nostro corredo di immagini interiori.
La differenza è che oggi il ricordo si esternalizza sempre di più, proprio come l’economia. Perché costa meno fatica archiviare quel che ci serve in un altrove tecnologico, in un cervello remoto che entra in coppia con il nostro e lo potenzia. Giorno per giorno immagazziniamo a futura memoria dati che potrebbero servirci in avvenire. Conserviamo enormi stock di ricordi che non siamo necessariamente in grado di selezionare, classificare, processare al momento, ma che potrebbero rivelarsi preziosi domani. E non è solo per questo che il nostro orizzonte digitale si addensa di cloud. Ma anche perché, proprio come in economia, a volte esternalizzare migliora la qualità del servizio. E archivi remoti, database, pen drive, sim, hard disk hanno potenzialità e virtualità impensabili per una sola mente. Fosse anche quella prodigiosa di Pico della Mirandola. Ecco perché ciascuno di noi da solo non riesce ad avvicinarsi neanche di striscio al livello di quel cervellone, memorioso come un personaggio di Borges. Ma in compenso, con la memoria aumentata è come se avessimo tante teste anziché una sola. Tanti suggeritori nella buca pronti a darci l’imbeccata quando serve. Sono i nostri ghost reminder che ci ripescano dallo sprofondo delle nostre amnesie.
Insomma la memoria si è trasferita da Pico ai Pixel, che sono i nuovi strumenti del ricordo. Non a caso anche loro hanno a che fare con l’immagine. Pixel deriva, infatti, da picture element, letteralmente elemento di immagine. Come dire atomi di memoria. Piccolissimi punti collegati gli uni agli altri da una rete di relazioni che rendono l’immagine significativa. E quanti più sono, tanto maggiore è la potenza della rammemorazione. Che restituisce il più piccolo dettaglio consentendoci, al bisogno, di ingigantirlo. Di mettere a focus i ricordi.
A guardarla con il senno di poi, anche la vecchia memoria aveva i suoi pixel. Emozioni, sensazioni, odori, sapori, amori, umori, timori, rancori, fantasie, nostalgie che mettevano in moto la macchina della rimembranza. Come la madeleine inzuppata nel tè di Proust, che disincaglia il ricordo dello scrittore dalle profondità del passato e lo fa riaffiorare improvviso, come un pop up, alla superficie del presente. Oggi le nostre madeleine si misurano in Ram. E noi cittadini digitali, proprio perché siamo alle prese con questo oceano d’informazioni, dati, conoscenze, curiosità, immagini, impossibili da padroneggiare, controllare, verificare, elaborare, abbiamo costruito strumenti che lo fanno al nostro posto. In fondo Google, Bing, Baidu, Wikipedia, Instagram, Napster e You-Tube sono diventati la memoria collettiva di un mondo senza collettività. Ciascuno vi accede individualmente e ciascuno contribuisce personalmente alla crescita di questi giganteschi stock di saperi, di nozioni, di notizie, di foto. Che sono e saranno sempre di più i cervello remoto dell’umanità interinale.
Se la memoria, come diceva Cicerone, è la custode di ogni conoscenza, allora siamo decisamente entrati nell’epoca della conoscenza on demand. Passando dal “cogito ergo sum” al “digito ergo sim”.