Repubblica 25.6.16
Perché ora Trump diventa possibile
La sua candidatura appariva più che impensabile, risibile Esattamente come sembrava pochi mesi fa l’uscita inglese dalla Ue
di Vittorio Zucconi
«E
NON finirà qui» gongola Donald Trump dalle dune della Scozia dove ha
aspettato giocando a golf l’esito del referendum britannico, assaporando
l’euro harakiri britannico come l’auspicio del proprio possibile
trionfo in America fra sei mesi. E ha ragione.
In quella nazione
che gli americani chiamano giustamente “The Mother Country”, la terra
madre che ha dato agli Stati Uniti due secoli or sono il proprio Dna
culturale, politico, istituzionale, si è alzato quello stesso vento che
ha gonfiato la ribellione e alimentato il rancore di milioni di elettori
americani in Usa e lo ha portato a una candidatura del partito che fu
di Lincoln e Reagan che appariva, ancora pochi mesi or sono, più che
impensabile, risibile. Esattamente come impensabile era apparsa la
diserzione inglese dalla Unione Europea al premier britannico Cameron,
quando ebbe la infelice idea di convocare il referendum che lo ha
travolto.
Nella apparente diversità che separa i grandi eventi
elettorali degli ultimi giorni nelle democrazie occidentali — il voto
massiccio per la estrema destra in Austria, le importanti vittorie delle
candidate di Grillo in grandi città italiane, il netto successo del
Brexit (52 a 48 in un referendum non è affatto un risultato “risicato”) e
l’atteso boom di Podemos in Spagna domani — c’è un segno comune che
oltrepassa le personalità dei politici vincitori e le distinzioni
ideologiche e i programmi, spesso rudimentali o embrionale. Ed è il
rifiuto dell’esistente. È la sentenza di condanna politica contro
chiunque sia in questo momento al governo di nazioni, di città, o di
partiti tradizionali.
Una generazione dopo il crollo del Muro di
Berlino, quell’evento che ha rimescolato l’assetto di un mondo che era
rimasto immobile dalla fine della guerra senza proporne uno alternativo,
altri muri stanno crollando, sotto le picconate di una crisi che va ben
oltre le cifre dell’economia, le catastrofi e le truffe del “Big
Money”, della grande finanza e del neo nomadismo che la fine dei blocchi
ha rimesso in moto: la crisi di identità. Milioni e milioni di
cittadini, abbandonati nella terra di nessuno fra la fine dello Stato
Mamma, il welfare state socialdemocratico ormai insostenibile che aveva
sorretto l’Europa e le promesse mancate di un neo liberismo che ha
arricchito i ricchi e improverito i poveri tra delocalizzazione e
speculazione, vagano come profughi di un’ansia che si coagula nel
rifiuto del presente, troppo angoscioso.
Su questo bisogno
divorante di ritrovare un’identità — che nell’estremismo fanatico e
violento trova addirittura nei criminali dell’Isis un rifugio
identitario — nasce il desiderio umanissimo, e impropriamente chiamato
irrazionale di tornare al “default”, al passato della propria
condizione, vista come i bei tempi antichi. I britannici che hanno
scelto il salto nel buio sognano che in fondo al precipizio ci sia la
mitica “Britannia” che un tempo dominava gli oceani e garantiva a tutti
la pinta di “ale” al pub, la sanità pubblica e la pensione, mentre
altrove si immagina il ritorno alla purezza etnica fra le valli delle
Alpi, all’orgoglio della “Marianna” gallica o a un’immaginaria Arcadia
del proprio villaggio. In circoli sempre più piccoli, sempre più
provinciali, sempre più isolati e isolazionisti, i demagoghi coltivano
l’illusione di tornare “padroni a casa propria”, mentre i governi in
carica balbettano.
Questo è il percorso che Donald Trump sta
compiendo, la strada che il Gps degli umori velenosi del nostro tempo
gli indica e che potrebbe condurlo diritto alla Casa Bianca.
Chiunque,
anche un Farage, anche un Boris Johnson, anche una LePen, anche un
Hofer, anche un Putin, anche giovani, simpatiche sindache paracadutate
alla guida di città ingovernabili, e dunque anche un Trump, sembra a
molti migliore di chi governa al momento. Una metà della cittadinanza
vota non “per” qualcuno, ma contro, per dare una lezione, per
testimoniare la propria disperazione, per “provare”.
La forza di
Trump è precisamente la voglia di chi è pronto a saltare da un edificio
in fiamme, pur di sfuggire al presente, che in America sichiama Hillary
Clinton. Non è tanto l’innamoramento per “The Donald”, quanto l’allergia
all’establishment incarnato da lei e che anche Bernie Sanders aveva
intercettato. Lei è vista dai Trumpistas, e dai Sanderistas, come
l’erede e la rappresentante del potere in atto e come la campionessa di
forze estranee, di stranieri — la finanza, le banche, le grandi aziende,
le istituzioni sovranazionali, “loro” — che si sono impadroniti della
nostra bella, pura, violata e mutilata Patria. «Io sono americano, noi
siamo americani, ah, americani, americani, come vi voglio bene
americani» ha ripetuto e intonato Trump nel suo ultimo discorso sul
suolo americano prima di partire per la “Terra Madre”, le isole
britanniche, «e io rifarò grande l’America, restituendole la sovranità»,
come se gli Usa fossero colonia e non, semmai, colonizzatori. Non è
dunque un programma politico razionale, è un grido di disperazione
identitaria che sempre, nei momenti di sbandamento e di polarizzazione
velenosa, gli incantatori lanciano. Sapendo che niente è più efficace,
per chi si sente smarrito, reso anonimo dal tempo in cui vive, del
messaggio fondamentale del nazionalismo: la rassicurante certezza che i
nostri guai siano sempre colpa di altri.