Repubblica 22.6.16
Perché noi siamo tutto quello che ricordiamo
Niente come la memoria è qualcosa di unico che ci rende uguali agli altri
di Teju Cole
Ogni
essere umano è un pozzo di ricordi personali. Tutti noi abbiamo strati
interiori profondi. È uno degli aspetti che caratterizzano in modo più
evidente il nostro essere umani. Forse è per questo che una grave
perdita di memoria è molto più che un semplice disagio, e spesso si
presenta come una perdita di identità. «La vita non è quella che si è
vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla»,
scrisse Gabriel García Màrquez. Mi chiedo come sarebbe costruire il
senso dell’etica sull’idea che tutti abbiamo dei ricordi, che non siamo
le circostanze attuali ma il risultato di una stratificazione, come
smalti colorati, di tanti ricordi che un profumo, un panorama o una voce
possono rievocare all’improvviso,
a cui qualche meccanismo
sensoriale può darci accesso, come una radiografia rende visibile cose
esistenti ma di rado visibili. [...] Di recente ho visto un’immagine che
non riesco a dimenticare. Era il fotogramma di un video girato in un
tribunale di Dakar. C’era il viso di una donna anziana, che
probabilmente stava testimoniando. Indossava un foulard nero con l’orlo
bordeaux e parlava al microfono. Sul lato sinistro dello schermo
compariva il suo nome, Khadidja Hassan Zidane, e sotto il viso c’era una
frase, probabilmente la traduzione in inglese di quello che stava
dicendo. Non dimenticherò mai le parole esatte di quel sottotitolo.
Khadidja Hassan Zidane diceva: «Avevano dormito con noi senza il nostro
consenso». Il contesto: il filmato era stato girato durante il processo
di Hissène Habré, un despota che aveva seminato il terrore in Ciad dal
1982 a quando era stato deposto, nel 1990. Habré aveva ucciso molti
nemici politici e moltissimi innocenti, stuprato e torturato
personalmente un gran numero di persone e reso possibili violenze e
torture di ogni genere. Migliaia di persone avevano sofferto per colpa
sua. Ora, in tarda età, veniva processato. Grazie alla deposizione di
Khadidja Hassan Zidane e molti altri testimoni, il tribunale aveva
condannato Hissène Habré all’ergastolo. «Avevano dormito con noi senza
il nostro consenso». Il significato è chiaro: Hissène Habré l’aveva
violentata. Ma Khadidja Hassan Zidane non dice «è uno stupratore» o «mi
ha violentata». Mette in primo piano la propria storia, non l’azione del
colpevole. «Senza il nostro consenso »: è così che ha ricreato
quell’evento nella sua memoria. Non avrebbe usato quelle parole se non
fosse stata profondamente consapevole dell’importanza del proprio
consenso in tutto quello che le succedeva. Ma forse quella frase era
anche una delle strategie adottate per affrontare la sofferenza perenne
di quello che Hissène Habré le aveva fatto. E il modo in cui aveva
strutturato quella frase evocava la stessa forza e la stessa angoscia di
quanto avrebbero fatto termini più convenzionali. Se si pensa alla
profonda sofferenza del mondo attuale, è importante ricordare il pozzo
profondo di memoria creativa che esiste in ciascuno di noi. E il termine
memoria creativa non implica nulla di falso, ma sottolinea che la
memoria è personale, variabile, e strettamente associata a una verità
che è molto più profonda dei fatti nudi e crudi.
Ma perché insisto
tanto sul ruolo che la memoria può rivestire in una situazione di
sofferenza? Per caso, lo stesso mattino in cui ero venuto a sapere della
condanna di Hissène Habré, avevo letto un racconto di Zadie Smith sul
New Yorker intitolato: “Due uomini arrivano in un villaggio”. Un’altra
storia di violenza, ma in questo caso, resa in maniera astratta. La
storia, molto breve, ha il ritmo di una favola: «Ai due uomini piace
arrivare così, con un saluto più o meno amichevole, come a ricordarci
che tutti gli esseri umani, a prescindere da cosa fanno, vogliono
piacere ai propri simili, anche se fosse solo per un’ora prima di essere
temuti o odiati».
Siccome nomi e luoghi non sono identificati, e
anzi, restano del tutto assenti, l’atmosfera è simile a un sogno. Ma ciò
che dà forza alla storia è che non si concentra unicamente sulla
ferocia bestiale dei due uomini che fanno scempio del villaggio, ma
sull’umanità e la volontà di resistere delle vittime. In effetti, la
storia stessa sembra un evento ricordato. Come la foto di Khadidja
Hassan Zidane nel processo di Hissène Habré, volteggia e infine si posa
sulla questione del consenso e i vari modi in cui chi è stato
vittimizzato può assumere nuovamente il controllo. Se c’è un eroe nella
favola di Zadie, per me è la moglie del capo villaggio. Non solo
incoraggia le donne a dare la propria versione dei fatti fidandosi dei
ricordi ma suggerisce che una strategia per rispondere a un attacco è
dimenticare alcuni aspetti degli invasori, per esempio i loro nomi.
[...] Il mio accesso ai ricordi plasma il modo in cui penso a coloro la
cui memoria è stata danneggiata da eventi geopolitici. A Roma e in ogni
parte del mondo, vediamo un fiume incessante d’immagini di sofferenza
umana. Il dolore contenuto in quelle immagini, e soprattutto di chi è
stato costretto a lasciare la propria casa, mi colpisce, così come il
pensiero che quelle persone, che stanno morendo, mi somigliano. Solo per
un caso della storia, mi trovo qui, e non su un precario barcone nel
Mediterraneo.
Vorrei unire la storia di Zadie Smith e la
deposizione di Khadidja Hassan Zidane a una poesia di una delle nostre
più grandi poetesse della memoria, Wislawa Szymborska. È un componimento
breve. Vi ricorderete il verso di Dante, secondo cui non c’era «Nessun
maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria». Io credo
che invece esista un dolore più grande: non essere in grado o non avere
il permesso, di ricordare, oppure essere considerati incapaci di
ricordare: in altre parole, essere ridotti alle proprie circostanze
attuali. Mi sembra una sofferenza molto più grande del ricordare una
felicità passata.
Ciò che mi colpisce di più nella poesia di
Szymborska è il modo in cui, come nella storia di Zadie Smith,
l’astrazione viene usata per rendere dicibile l’indicibile. E al
contempo ogni descrizione – gli specchi lasciati alle spalle, i cani
lasciati alle spalle, la stanchezza del cammino, il bambino senza vita –
sembra profondamente personale. Mi piacerebbe farvi pensare all’enorme
bacino di memoria in ciascuna di queste persone, non solo i loro sogni
per il futuro ma l’intimità, l’euforia, le gioie dell’infanzia.
Immaginate che qualcuno di loro aveva una passione per le matite, come
me, o per gli animali, o il nuoto, la musica, i libri. Penso che credere
nella capacità delle persone di avere ricordi profondi significa
vederli uguali a noi. È il primo passo per lasciarli vivere la loro
vita.
Traduzione di Gioia Guerzoni
“LETTERATURE” A ROMA
Teju
Cole ( foto) leggerà il testo che in parte anticipiamo domani alle 21
al festival ideato da Maria Ida Gaeta alla Basilica di Massenzio di
Roma. Con lui a “ Letterature” ci saranno Wu Ming 2, Wu Ming 4 e
Vitaliano Trevisan. Letture: Matteo Lai; musica: Mokadelic L’ultimo
libro di Teju Cole è Punto d’ombra edito da Contrasto