Corriere 22.6.16
Condannare il nazismo vale l’esilio I giorni d’angoscia di Thomas Mann
di Giorgio Montefoschi
È
il 1936. Thomas Mann — il protagonista de La decisione , il romanzo
molto documentato e assolutamente verosimile di Britta Böhler (Guanda),
che ha avuto enorme successo in Germania, come presto si potrà
comprendere, e ovunque — se ne sta seduto nel suo studio della casa sul
lago di Zurigo nella quale abita insieme alla moglie Katja e ai suoi due
ultimi figli da quando, in seguito all’ascesa al potere di Hitler, ha
deciso di abbandonare Monaco e la Germania, e vivere in Svizzera. Fuori,
la caligine che lo ha oppresso per tutto il giorno, vero e proprio
specchio della sua anima confusa, è finalmente scomparsa e, nel buio
notturno, si intravedono le stelle. Il vincitore del premio Nobel, lo
scrittore tedesco più omaggiato e conosciuto nel mondo, che ha da poco
ricevuto una telefonata del suo editore americano, Alfred Knopf che per
la interposta persona della moglie ha chiesto sue notizie e soprattutto
notizie del terzo volume, in gestazione, delle Storie di Giuseppe che in
America aspettano con trepidazione e lanceranno sul prestigioso
magazine «Time», beve a piccoli sorsi il suo liquore preferito, il
Benédictine, fuma il sigaro che Katja gli ha comprato in città, dopo
essere stata dalla sarta e a trovare un’amica ammalata, e intanto cerca
di dipanare il groviglio che gli ingombra la mente.
Nel cassetto
della scrivania ha la copia della lettera con la quale, richiesto
pressantemente dalla figlia Erika e dal figlio Klaus, e da parecchi
altri intellettuali e scrittori, ha preso una posizione netta e
inequivocabile contro il nazismo, e ha consegnato alla redazione del
quotidiano «Neue Zürcher Zeitung», chiedendo subito dopo di aspettare
ancora un poco, un giorno, un altro giorno ancora, per metterla in
pagina. Sono così passati tre giorni di autentico tormento. Da un lato,
l’assillo del dovere morale: la necessità assoluta — anche per uno
scrittore — della condanna di quel «mascalzone» che brucia i libri,
farnetica, illude il popolo tedesco con la sua diabolica parlantina,
eccita una rivalsa pericolosa, un desiderio di dominio folle destinato
alla catastrofe. Dall’altro lato, il terrore di un addio definitivo alla
Germania; il vuoto dell’emigrante; il dolore dello scrittore tedesco
separato per sempre dalla linfa vitale rappresentata dai lettori con i
quali condivide la lingua.
Sulla nave olandese che per la prima
volta lo ha portato negli Stati Uniti (con quegli avvertimenti continui,
man mano che si procedeva in avanti, di mettere le lancette
dell’orologio un’ora indietro) e poi a Princeton dove ha incontrato e
parlato con quello sbadato, quel tipo strano di Einstein, Thomas Mann ha
parecchio riflettuto sul tempo. E, con se stesso, ha convenuto che non
sono necessarie grandi teorie scientifiche per scoprire che la durata
del tempo è relativa e dipende soprattutto dalla intensità della vita,
dalla quantità di cose che si fanno. Gli anni, i mesi, i giorni nei
quali non accade nulla e tutto è regolare e ripetitivo, scorrono con la
velocità di un lampo; quelli densi sembrano lunghissimi. Come è vero. In
questi tre giorni sembra sia trascorsa una vita.
Molto hanno
contribuito la memoria, il pensiero del futuro, l’angoscia del presente.
E davvero, le tre giornate apparentemente normali, segnate dalle
abitudini inflessibili (la colazione, con il pane e burro e l’uovo solo
la domenica, le lettere, la passeggiata col cane, le trasmissioni alla
radio, il tè all’hotel Baur au Lac) hanno racchiuso una immensità di
tempo: la casa di Monaco con i bei mobili, i tappeti e i libri; le feste
di Natale con la preparazione dell’albero, le porte che si schiudevano,
le candele accese e gli «oh!» emozionati dei bambini, e il profumo
dell’abete la mattina seguente; il tram sul quale per la prima volta ha
visto Katja e ha deciso che sarebbe stata la donna della sua vita; il
sanatorio che sarebbe diventato il sanatorio della Montagna magica ; la
neve e le slitte coi sonagli; Venezia; le spiagge del Baltico; i
trasalimenti per quei ragazzi biondi, nudi, affidati alle pagine di un
diario segreto che per delle misteriose ragioni non è stato mai
distrutto e se mai dovesse essere scoperto rovinerebbe la sua
reputazione davanti al mondo; le conferenze in Europa e in America; i
dissidi con il fratello Heinrich; i figli. A sessant’anni appena
compiuti, possibile che una vita così ricca non abbia altro di fronte a
sé questa decisione da prendere, e poi lo spettro del nulla?
Che
bel romanzo, appassionato, ha scritto al suo esordio Britta Böhler. Si
comincia e non si smette fino alle ultime righe: alla decisione,
appunto, che naturalmente al lettore non riveleremo. È un romanzo agile,
intenso, nel quale la figura di un personaggio molto famoso, sul quale
sono state scritte migliaia e migliaia di pagine (lui stesso non alieno
dall’autobiografarsi), è ricostruita mirabilmente. Agli scrittori, per
come si conclude, piacerà in particolar modo.