Repubblica 11.6.16
La grande illusione della guerra giusta
Oggi è sparita la dimensione politica degli sforzi bellici: non sappiamo nemmeno per quale pace combattiamo
di Massimo Cacciari
In
un’epoca di incertezza diffusa in cui Amico e Nemico si scambiano
continuamente i ruoli, l’unica strada possibile per sottrarsi alla
barbarie è riflettere sulla genesi filosofica della parola “conflitto”.
Rileggendo Eraclito
Quando altro non è possibile affermare se non
che la forma della guerra si è andata radicalmente modificando e che
nessun Sovrano sembra oggi in grado di porla in una qualche forma
giuridico-politica, proprio allora, forse, diventa più necessario
ritornare a pensare i termini fondamentali del problema. Nulla appare
oggi scontato o di per sé evidente; nessun paradigma regge alla
esperienza fattuale. Allora tutto dovrebbe reimpo-starsi,
appunto,
dalle fondamenta. E qui troviamo una parola originaria della nostra
civiltà, sul cui sfondo hanno continuato a proiettarsi i diversi e,
almeno all’apparenza, contrastanti modi in cui l’Occidente ha detto e
fatto la guerra. Essa ritorna per forza propria; noi non facciamo che
trarla fuori dal suo “eterno passato”, a farne cioè, letteralmente,
esegesi, ogni volta che facciamo la guerra.
Questa parola dice:
«Polemos (il Colli non lo traduce; Diano: il conflitto; Marcovich:
guerra) è padre di tutte le cose, di tutte è re, e gli uni édeixe
(valore gnomico: ha mostrato e sempre mostra) dèi, e gli altri uomini,
gli uni epoíese (come prima per édeixe: ha fatto e fa) schiavi, gli
altri liberi» (Eraclito). Polemos non “sostituisce” Zeus, ma stabilisce
un Principio a tutti gli essenti comune, un Principio cui tutti per
necessità obbediscono, anche se non lo sanno, quel Principio che parla
nel Logos stesso di Eraclito. Tale Principio è pater, cioè potens, solo
esso ha patria potestas effettiva. La sua potenza, cioè, non si
manifesta distruggendo, ma ponendo: essa costituisce gli uni come dèi,
gli altri come uomini; essa rende gli uni schiavi, gli altri liberi. Il
Principio-Polemos genera distinguendo, ovvero tutti accomuna proprio nel
costituirli come differenti. Polemos pone gli opposti e tra gli opposti
deve esservi contesa, éris. La guerra individua, fa emergere il
carattere-dèmone di un individuo contra l’altro, entrambi nel loro
opporsi manifestano questo comune: il porsi, cioè, di ciascuno come se
stesso nella sua differenza dall’altro.
Nello spasmo in cui si è
trasformato e serrato in sé il nostro spazio-tempo, popoli e culture
vanno incrociandosi e affastellandosi gli uni con gli altri, eliminando
ogni “amicizia” o “prossimità”. Più ci si meticcia semplicemente e meno
ci si ospita. Sono movimenti tellurici, zolle di crosta terrestre alla
deriva, che oggi danno di cozzo. La guerra perde ogni forma. Dove si
svolge? Al centro o alla periferia del “comando”, alle porte di Roma o a
Palmira? In qualsiasi punto in cui esploda, il conflitto può farsi
catastroficamente centrale. È guerra diffusa, policentrica; ogni
esplosione minaccia di travolgere il tutto. L’ordinato gioco tra parte e
intero, che ci era apparso nell’idea di Polemos, è travolto. Non solo
il concetto di guerra giusta crolla definitivamente, ma la stessa
definizione di Nemico si fa ardua. Essa diviene preda dell’occasionalità
più nuda.
Amico e Nemico si scambiano i ruoli con “insostenibile
leggerezza”, rendendo esercizio di scuola il paradigma schmittiano.
L’assenza di limiti della guerra contemporanea si era già imposta con il
tramonto dello ius belli; le grandi guerre civili mondiali dell’altro
secolo avevano già fatto crollare ogni differenza tra combattenti e non
combattenti, avevano già fatto uso di ogni strumento ideologico per
demonizzare il nemico e ricorso a ogni mezzo terroristico. (Nulla rende
più evidente la confusione che regna oggi in questo campo dello
scriteriato uso del termine “terrorismo”, applicato indistintamente a
ogni azione che sfugga a una logica classica di affrontamento tra
eserciti. Terrorismo significa terrorizzare le popolazioni “innocenti”; i
combattenti non sono terrorizzabili per definizione). Oggi questa
assenza di limiti assume una forma diversa, totale: da un lato, tende a
sparire il “campo di battaglia”; dall’altro, Amico e Nemico si fanno
interscambiabili. Ma soprattutto assenza di limiti viene a significare
l’assoluta impotenza a definire la guerra in termini morfogenetici. Per
la sua capacità di produrre nuove forme politiche, nella sua dimensione
costituente, si era sempre potuto parlare di arte della guerra e di una
virtus bellica. Questi timbri erano anche avvertibili nell’arcaico
termine Polemos. Oggi è la stessa politicità della guerra (la comune
radice di pólemos e pólis) che non riesce più a esprimersi. Quale ordine
si intende difendere dal presunto attacco? E quale costituire dopo
l’auspicata disfatta dell’aggressore? Insomma: per quale pace si fa la
guerra? Se non si sa chi sia il Nemico e dove stia, e tantomeno si
conosce chi sia l’alleato, la guerra finirà con l’essere condotta con i
mezzi più disparati, e con efficacia scarsa o nulla.
Così Polemos,
non più pater, finisce con l’apparire sempre ingiusto. Non sapendo dare
più al termine “guerra” un significato, si tenta di rimuoverne
l’esistenza stessa derubricandola alla famiglia del
“sorvegliare-e-punire”, ad azione di intelligence e di polizia. E si
sogna che tra politica e guerra si possa scavare l’abisso. Compaiono
spezzoni delle antiche “grandi forme”, dei tradizionali “eroici”
tentativi di mettere in forma il Gioco crudele – come relitti sulle
nostre spiagge abbandonati dalla colossale risacca dell’ultimo secolo.
Con fiducia particolare ci si abbarbica all’idea di “giusta guerra
difensiva”. Ma che significa? Difesa del territorio? E quali ne sono i
confini reali? Difesa dell’onore? E come impedire, allora, che essa
possa farsi anche preventiva, se entra in gioco l’onore di uno Stato?
Defensio innocentium? Ma quale Stato non ha da più di due secoli reso
“colpevoli” i suoi cittadini? Quale “scala di valore” può affermare se
stessa assoluta? Dove siede il Tribunale dell’Umanità? Spezzoni,
frammenti, balbettii che si inseguono nel nostro mondo successivo al
crollo della forma politico-militare imposta dai grandi Titani usciti
vincitori dalla seconda Grande guerra.
Ripetere frammenti e
balbettii non renderà più chiara la visione. Tantomeno se si crederà di
uscire da questa fase epimeteica inseguendo di nuovo il sogno del
supremo Tribunale, capace di ridurre ogni conflitto a formalismo
giuridico e a perseguire come un crimine la guerra. Questo sogno non fa
che esprimere l’indisponibilità europea, e ormai sempre più di tutto
l’Occidente, ad affrontare la “prova del fuoco”. In Polemos il dissidio,
in tutte le sue forme, era concepito e affrontato come segno di Dike,
della Necessità, e perciò i distinti nel loro opporsi erano anche sempre
visti nel Comune, cui appartengono e il cui Logos è pre-potente
rispetto a ogni loro manifestazione di potenza. Questa prospettiva
appartiene al nostro linguaggio più originario e non può perciò essere
definita utopistica. Forse essa ci indica ancora una non vana, non cieca
speranza per conferire un senso costituente, morfogenetico all’attuale
tumulto, anche se ignoriamo per quali vie e attraverso quali tragedie
essa potrà mai realizzarsi.