L'Osservatore Romano 11.6.16
Arma a doppio taglio
Le religioni nell'era della globalizzazione
di Mauro Magatti
Come
si possono porre le religioni nell'era della globalizzazione, in
un'epoca cioè in cui il pianeta si è fatto piccolo e interconnesso e in
cui le coordinate spazio-temporali entro cui si svolge la nostra vita
personale e collettiva vengono profondamente ristrutturate? È probabile
che, davanti a noi, si distenda un tempo del tutto nuovo. Un tempo di
conversione per l'umaniità e per le stesse religioni. Un tempo a cui
occorre guardare con speranza, nella convinzione che il meglio
dell'umano sia davanti, non dietro di noi. Attraversare questo tempo, e
le sfide di cui esso é portatore, comporterà anche un profondo
rinnovamento delle stesse religioni, almeno rispetto al modo in cui le
abbiamo conosciute finora. E anche in questo caso, ciò potrebbe essere
per il meglio non per il peggio. Le scienze umane oggi ci dicono che il
rapporto con l'altro soffre della tendenza intrinseca del linguaggio
(lógos) verso l'oggettivazione. Il linguaggio è un'arma a doppio taglio:
mentre ci mette in comunicazione reciproca e ci orienta all'universale,
allo stesso tempo esso è ciò che irrimediabilmente ci separa
dall'altro. Un punto chiarito dallo psicanalista Lacan, secondo il quale
proprio la parola, mentre ci permette di distinguerci e individuarci,
costituisce un sottile ma invincibile schermo rispetto a ciò che ci
circonda. Si potrebbe rileggere in questa chiave il tema caro a
Benedetto xvi e a Habermas sulla crisi della ragione contemporanea. Come
sappiamo, il lógos ha subito, in particolare nell'ultimo secolo, una
sua riduzione che, se da un alto ha permesso una crescente integrazione
globale (specialmente attraverso la scienza, la tecnica, l'economia),
dall'altro produce una «universalità dimidiata» (cioè ridotta e
parziale) lungo la strada che Romano Guardini ha chiamato di progressiva
astrazione (caratterizzata da distacco e divisione). In questa
situazione, il rischio è che il dialogo non riesca più a darsi,
spingendoci a una continua oscillazione tra omologazione e conflitto. Il
problema è che se ci fermiamo al lógos dimenticando il dia
(preposizione che nella lingua greca indica movimento: per, per mezzo,
attraverso, dopo, per merito o colpa, a causa di) ciò che è transitorio
finisce per diventare permanente e ciò che si trasforma, immutabile. Un
tale effetto lo si vede molto bene nei rapporti sociali che si producono
nelle nostre società, dove — al di là delle buone intenzioni — ciascuno
viene spesso schiacciato nella sua appartenenza culturale, senza che
gli sia riconosciuta la capacità di essere un soggetto capace di una
propria elaborazione culturale. Lo stereotipo (una mera tipizzazione)
viene così confuso con la rappresentazione. E ciò accade per tutte le
differenze più significative; di razza, di etnia, di genere e anche di
religione. Di fronte a tale difficoltà, occorre tornare a riflettere
sull'idea dell'altro come soggetto portatore di uno "sguardo" e non solo
come un oggetto da guardare e definire. Ma dire questo, cosa può
significare? Occorre ricordare prima di tutto che non esistono culture
separate dalla persone né persone separate dalle culture. Le culture non
esistono oggettivamente, come entità definite e ancorate una volta per
tutte a determinati territori. Al contrario, le culture sono corpi vive e
si trasmettono e trasformano attraverso le pratiche e le relazioni. In
effetti, le culture esistono solo attraverso la mediazione di uomini e
donne, e solo in questo modo esse durano e cambiano. In quanto forme
incarnate, le culture sono in movimento. Su questo presupposto è allora
possibile fare un passo in avanti introducendo ciò che Raimon Panikkar
chiama «dialogo dialogico» (e non meramente dialettico) a partire dal
riconoscimento della struttura dialogica che caratterizza l'essere
umano. Noi oggi sappiamo, infatti, che la scoperta e la costrizione
della propria individualità e identità avvengono nell'incontro (con la
madre, con gli altri) e che ci è possibile capire chi siamo anche
attraverso lo sguardo degli altri su di noi. La stessa cosa vale anche a
livello culturale. Senza dubbio, la cultura ci definisce e contribuisce
in modo decisivo a strutturarci; e tuttavia, proprio l'incontro con
l'altro — tanto più l'altro «straniero» o «povero» — ci fa prendere le
distanze dalla nostra cultura, consentendo riflessività e cambiamento.
Per paradosso, si può dire che la tendenza alla cristallizzazione delle
culture è guarita dalla ferita-feritoria che nasce dalla provocazione
che ci viene dall'altro. In questa prospettiva, il dialogo dialogico può
essere visto come un movimento (dia-lógos) che porta a un risultato
aperto in grado di cambiare tutte le parti coinvolte mediante due
movimenti fondamentali. In primo luogo, il movimento tra tradizione e
innovazione: una identità culturale viva è un'identità capace di
cambiare rimanendo se stessa.