La Stampa TuttoLibri 4.6.16
Il cinema di Ozu?
La cosa più simile al paradiso
Dalle corrispondenze sugli orrori della guerra alla passione per Hollywood, Lubitsch e Ford in testa
di Stefano Della Casa
Quando Wim Wenders presentò Tokyo Ga, il suo film giapponese dedicato a Yasujiro Ozu, gli venne chiesto il perché di quella scelta. Wenders non ebbe dubbi e rispose con una frase divenuta memorabile: «La cosa più simile al Paradiso che io abbia mai incontrato è il cinema di Ozu». Insieme all’altro aforisma «Il rock mi ha salvato la vita», è una frase che definisce perfettamente l’estetica di Wenders; al tempo stesso, è la prova di quanto il cinema di Ozu abbia fortemente influenzato il nuovo cinema che negli anni Sessanta caratterizzò tutte le cinematografie del mondo.
Oggi possiamo scoprire quanto Ozu sia stato, oltre a un regista straordinario, anche un grande teorico del cinema. Siamo in grado di farlo grazie a un volume, Scritti sul cinema, curato da Franco Picollo e Hiromi Yagi appena uscito presso l’editore Donzelli. Sono pagine che attraversano una trentina di anni, dal 1931 al 1962. Sono appunti scritti con linguaggio piano, appassionato che ci fanno capire perché Ozu sia stato al tempo stresso un grande conoscitore del cinema occidentale, particolarmente di quello hollywoodiano (Ernst Lubitsch e John Ford sono tra i registi più citati, ma l’elenco è molto lungo e variegato), pur essendo al tempo stesso un grande cultore delle tradizioni del suo paese. Nel periodo in cui Ozu scrive le sue note sul cinema c’è anche la guerra sino-giapponese prima e la seconda guerra mondiale poi, e il regista è coinvolto in prima persona in questi tragici eventi. Le sue corrispondenze non nascondono gli orrori («molti miei compagni sono morti»), propongono una precisione quasi maniacale nel descrivere i suoi spostamenti, esprimono sentimenti contradditori sul cinema: all’inizio afferma di voler fare un film sul conflitto (un film realista, diverso dagli altri), nel 1940 spiega perché non ha fatto un film sulla guerra.
Il cinema è una presenza costante nei suoi scritti. Si capisce che vede molti film hollywoodiani, si lancia in analisi sul modo di scrivere le sceneggiature da parte di Frank Capra o sulla recitazione di Shirley Temple. Però già nel 1940 afferma che «Mi pare che ormai dal cinema americano non ci sia più granché da imparare. Se proprio si vuole parlare di qualcosa che dobbiamo ancora apprendere, si potrebbero forse citare gli aspetti tecnologici, in particolare la tecnologia delle macchine da presa». Ma al tempo stesso Ozu osserva che in America, così come in Giappone, si fanno tre tipi di film: i film tratti da opere letterarie, i film dello star system (costruiti cioè su misura per gli attori famosi che li interpretano) e i film a colori. A questa tripartizione, Ozu contrappone i film che vuole fare e che saranno ispirati al realismo. Apparentemente - gli anni sono gli stessi - sembrano le stesse considerazioni che spinsero Rossellini a dare il via alla grande stagione del neorealismo. Solo apparentemente, però. In Giappone i conti con gli orrori della guerra e dell’atomica saranno fatti in un secondo momento. E lo stesso Ozu, parlando di uno dei suoi film più famosi, Viaggio a Tokyo (girato nel 1953), scriverà «Ho provato a dipingere la disgregazione del sistema famigliare in Giappone attraverso l’evoluzione dei rapporti tra genitori e figli nel corso del tempo: Tra tutti i miei film, questo è quello che ha una più marcata tendenza al melodramma». Tutto qui, niente di più. Una scrittura semplice ma densa di contenuti, proprio come è caratteristica del suo cinema.
Invano nei suoi testi si possono cercare citazioni di Akira Kurosawa (cita solo uno dei suoi film considerati minori, Cane randagio) o del suo amico Inoshiro Honda (l’inventore di Godzilla), forse i registi giapponesi più conosciuti dal grande pubblico. Sulla fama di Toshiro Mifune, a sua volta l’emblema dello star system nipponico, solo una citazione per dire che si tratta di un caso di «idolatria di massa». E quando nel 1959 lavora per Erbe fluttuanti con il direttore della fotografia Miyagawa (quello cui si devono le splendide carrellate di Rashomon, si limita ad annotare che «mi è stato molto d’aiuto». Però non ha dubbi, quando afferma che il cinema non ha una sua grammatica, una formula fissa. Quando uno inventa qualcosa di nuovo e il pubblico lo segue, quella diventerà la grammatica e andrà avanti fino a essere a sua volta sostituita. Per cui i giovani devono farsi valere, devono percorrere strade nuove. Ozu scrive queste note nel 1958. poco più di un anno dopo, Godard eTruffaut a trent’anni non ancora compiuti presenteranno Fino all’ultimo respiro, il film che più di qualunque altro ha cambiato la grammatica del cinema.