La Stampa 9.6.16
La politica prigioniera di vecchi schemi
La
sorpresa non è arrivata dall’esito del primo turno per le
amministrative di domenica, perché, questa volta, i sondaggi ci hanno
sostanzialmente azzeccato
di Luigi La Spina
.La
sorpresa, e la delusione, è venuta dalle interpretazioni della nostra
classe politica e dirigente sui risultati del voto, sintomo quanto mai
significativo di quel preoccupante distacco dalla realtà delle
cosiddette «élite» del Paese, pervicacemente ostinate a guardare con gli
occhiali del Novecento le tumultuose trasformazioni sociali di questo
inizio del nuovo secolo.
Perché stupirsi ancora che, sul consueto
asse destra - sinistra del panorama politico italiano gli schieramenti
sociali si siano, da tempo, rivoluzionati, non più nel binomio
conservatori-progressisti, ma in quello integrati-esclusi? Con l’ovvia
inversione delle tendenze elettorali nei quartieri delle nostre città.
Perché
ritenere che abbia ancora validità la tradizionale divisione
socio-politica tra lavoratori dipendenti che votano a sinistra e
autonomi che scelgono la destra, quando gli effetti della
globalizzazione dell’economia e della finanza li hanno accomunati in un
nuovo tipo di proletariato, precario e sfiduciato?
Perché non
accorgersi che l’improvvisa mobilità elettorale degli italiani, dopo
decenni di assoluta impermeabilità tra gli schieramenti, è il segnale di
una disperata, frammentata e occasionale domanda politica che non trova
mai una offerta, adeguata alle necessità concrete e convincente nella
promessa di soddisfarle?
Ecco perché, a sinistra, si immagina
nostalgicamente che sia ancora possibile ricostruire una alleanza
politica che rifletta quella soluzione, chiamiamola socialdemocratica o
laburista, che non ha più una base sociale di riferimento. Come,
peraltro, dimostrano le convulsioni culturali e politiche persino dei
Paesi scandinavi, esempi classici di tale modello, davanti alle
sconvolgenti novità sia dei fenomeni migratori, sia di quelli finanziari
di questi tempi. Così, a destra, si invoca, altrettanto
nostalgicamente, la ricomposizione di un centro cosiddetto «moderato»,
in caccia di quegli elettori che sono diventati tutt’altro che
«moderati», perchè spinti, dalla devastante crisi del ceto medio, alle
estremità più radicali dello schieramento partitico.
La prigione
mentale di schemi interpretativi obsoleti, paradossalmente, induce anche
coloro che avvertono l’impossibilità di perpetuare ipotesi di soluzione
di nuovi problemi con antiche ricette a proporre rimedi insufficienti o
illusori. Se è vero, ad esempio, che le novità tecnologiche riducono
pesantemente il mercato degli attuali lavori, ricorrere al cosiddetto
«reddito di cittadinanza» come innovativa soluzione all’impossibilità di
garantire il sistema tradizionale di welfare costituisce un sostegno,
per di più senza speranze, alla sopravvivenza di tanti giovani e meno
giovani e non l’offerta di occasioni per un progetto di vita o di «nuova
vita».
Alle difficoltà italiane, del resto molto simili a quelle
di quasi tutte le società occidentali, purtroppo non esistono rimedi con
efficacia immediata, proprio perché i mutamenti sociali, economici,
culturali avvenuti dall’inizio del secolo sono stati troppo rapidi per
la comprensione delle conseguenze da parte di classi dirigenti arroccate
nel privilegio di non doverle subire. Ma il loro isolamento dalla
realtà produce, per limitarci alle cronache di queste ore, effetti
grotteschi, come gli appelli dei leader politici agli elettori perché,
al ballottaggio, seguano le loro indicazioni, quando è ormai chiaro che i
cittadini le ignorano e decidono solo con la propria testa. Quei
partiti che i presunti capi-partito pensano di guidare, infatti, non
esistono più da parecchi anni, trasformati, nei casi migliori, in
comitati elettorali a seguito di un più o meno improvvisato leader e,
nei casi peggiori, in clan personali e affaristici di potentati locali. O
come le volenterose e improbabili trasposizioni del voto di domenica su
quello del 19 giugno e, nella foga profetica, i calcoli sulle prossime
scadenze elettorali o referendarie alla luce di risultati che hanno,
nelle variabili locali, indecifrabili significati nazionali.
Meglio
sarebbe, alleggeriti dai pur rispettabilissimi fardelli dei libri di
Adamo Smith o di Carlo Marx , andare, con liberatoria curiosità, alla
scoperta di tanti fenomeni nuovi che hanno cambiato la nostra vita e,
soprattutto, quella delle più giovani generazioni. Ci accorgeremmo,
allora, che la scuola e l’università, una volta deputati ascensori della
mobilità sociale, sono diventate, tranne qualche eccezione, istituzioni
che perpetuano una feroce conservazione di classe nei destini dei loro
studenti. O che il sistema di welfare familiare che negli anni passati
consentiva, con il patrimonio dei risparmi accumulati dal lavoro di
nonni e padri, di mantenere figli precari o disoccupati per lunghi anni,
incomincia a franare. I minimi tassi di remunerazione di quei capitali,
piccoli o meno piccoli che siano, non consentono più ai tesoretti
depositati in banca dalle vecchie generazioni di far fronte alle
necessità di un sostegno supplementare ai magri guadagni, quando ci
sono, dei giovani d’oggi.
Ci accorgeremmo, forse, che la prossima
rivoluzione non verrà dai poveri che troviamo all’aperto, agli angoli
delle strade, ma da quelli che stanno al chiuso, dentro le loro case e
si vergognano di esserlo diventati.