mercoledì 29 giugno 2016

La Stampa 29.6.16
Cosa distingue Bergoglio e Ratzinger
di Gian Enrico Rusconi

Con lo scambio di affettuose parole e di profondi attestati di stima reciproca, papa Francesco e il papa emerito Ratzinger possono considerare chiusa ogni maliziosa interpretazione del loro rapporto? Francesco, nel viaggio di ritorno dall’Armenia, l’altro giorno aveva usato parole dure e inequivoche. «C’è un solo Papa. L’altro, Benedetto XVI, è un papa emerito, una figura che prima non c’era e a cui lui, con coraggio, preghiera, scienza, e anche teologia, ha aperto la strada». Non ci sono due papi o una loro combinazione.
È una secca negazione della tesi sostenuta tempo prima - non sappiamo con quale intenzione - da monsignor Georg Gänswein, notoriamente vicinissimo a Ratzinger. Secondo il prelato, esisterebbe «di fatto “un ministero petrino” allargato».
Un ministero «con un membro attivo e uno contemplativo: per questo, Benedetto non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca; per questo, l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora: Santità». Poteva sembrare un sottile tentativo di limitare la posizione di papa Francesco, giocando maliziosamente la carta della contrapposizione tra il suo attivismo «pastorale» caratterizzato da una grande successo mediatico e la sua supposta fragilità e inconsistenza «teologica».
Papa Bergoglio, che non è uno sprovveduto, ha reagito da par suo, con un doppio argomento. Uno direttamente riferito alla persona di Ratzinger «fedele alla parola data» di non interferire nell’agire del suo successore. «È molto intelligente, e per me è il nonno saggio a casa», un nonno con un «sano e gioioso senso dell’umorismo», ha ribadito ieri .
Venendo alla sostanza degli argomenti, va detto che papa Francesco ha una sua precisa idea di «teologia» («teologia in ginocchio», «teologia del popolo», «teologia della misericordia»). In lui non c’è insistenza sui motivi della «razionalità della fede» o della «ellenizzazione del cristianesimo» con cui Ratzinger si confrontava con il mondo moderno. Ha gli occhi fissi sulla narrazione evangelica riportata letteralmente all’oggi, senza soluzione di continuità. Naturalmente, tra Bergoglio e Ratzinger non c’è contrasto di principio, ma una sensibilità profondamente diversa, che non può non riflettersi a livello dottrinale anche nel concetto onnipresente di «misericordia».
A proposito di quest’ultima, Ratzinger ha pubblicato il 17 aprile sull’Osservatore romano un testo, in forma di intervista, di non facile interpretazione. Contiene una esplicita approvazione della tematica della misericordia bergogliana, ma inquadrata e articolata nel contesto più complesso della «giustificazione della fede», allargando il discorso alla questione della presenza del male nel mondo. Si muove tra due affermazioni: «Davanti al male del mondo l’uomo non crede più di aver bisogno della giustificazione, ma che Dio debba giustificarsi davanti a lui»; d’altra parte, «Dio non può semplicemente lasciare com’è la massa del male che deriva dalla libertà che Lui stesso ha concesso. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può anche redimere il mondo».
Segue la dottrina tradizionale del peccato, della punizione, dell’espiazione oltre che del perdono di Dio tramite Cristo, ma c’è anche una esplicita presa di distanza dalle tesi (nominalmente attribuite a sant’Anselmo) della natura infinita di Dio che esige per necessità logica e metafisica una espiazione infinita che Dio stesso può garantire soltanto tramite il sacrificio del Figlio.
Non è questa la sede per seguire le argomentazioni di Ratzinger, consapevole delle difficoltà della tematica tra «giustificazione» e «misericordia». Ma colpisce che scriva: «non c’è dubbio che su questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma». Viene spontaneo chiedersi se la strategia comunicativa di Bergoglio, nei suoi testi sistematici e nelle sue conversazioni «a braccio» sulla misericordia, non stia portando consapevolmente o inconsapevolmente in questa direzione.