martedì 28 giugno 2016

La Stampa 28.6.16
La donazione degli organi, un dilemma filosofico
di Maurizio Assalto

Mors tua vita mea, si usa dire. Un po’ cinico, ma in qualche caso tragicamente vero. A volte addirittura circonfuso di ammirata approvazione. Senza riandare al mito della dolente Alcesti che si offre a Thanatos al posto dell’amato Admeto, basta pensare alla questione molto attuale della donazione di organi. Un tema delicato quanto pochi altri, che investe argomenti tabù come l’attaccamento alla propria integrità corporale e disposizioni d’animo apprezzabili come la sollecitudine verso l’altrui bene - quando peraltro il male estremo per il donante è compiuto.
Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così? Che la mors tua, attraverso la quale potrebbe passare la vita mea, sia davvero morte? A sollevare diversi dubbi è un libro pubblicato da un piccolo editore romano, Efesto. Si intitola Vivi o morti? e non l’ha scritto un gretto oscurantista ma un docente di filosofia, nonché attivista di Amnesty International, Roberto Fantini, che è andato a sentire riconosciute autorità nei rispettivi campi.
Alla base della controversia è il concetto di «morte cerebrale»: basato su un riscontro strettamente neurologico, ossia il cosiddetto coma irreversibile, ha innovato la secolare tradizione medico-giuridica per cui l’accertamento del decesso avveniva in seguito alla definitiva cessazione di manifestazioni vitali quali la respirazione e il battito cardiaco. Oggi accettato come indubitabile, questo criterio è stato introdotto in tempi relativamente recenti, nell’agosto del 1968, su proposta del cosiddetto Comitato di Harvard, un gruppo di tredici esperti che era stato costituito presso la Harvard Medical School. Pochi mesi prima, a Città del Capo, Christian Barnard aveva portato a termine il primo trapianto di cuore, e la necessità di avere a disposizione organi irrorati dal sangue (quindi prelevati da un corpo ancora vivo, anche se cerebralmente morto) per salvare altre vite aveva suggerito l’inedita formula.
Ma la mancata registrazione tecnologica di attività cerebrale dimostra inequivocabilmente la morte totale della coscienza? E se un domani strumenti più raffinati ci consentissero di captare onde cerebrali che oggi sfuggono alla rilevazione? Hans Jonas, uno dei grandi pensatori del ’900, in Morire dopo Harvard (Morcelliana, 2009) ha ammonito: «In questa situazione di ignoranza e di ragionevole dubbio, l’unica massima corretta per agire consiste nel tendere dalla parte della vita presunta».
E così ci avviciniamo al nucleo filosofico della questione. Ammettiamo pure che la corteccia cerebrale sia defunta: ma io sono o non sono qualcosa oltre la mia corteccia cerebrale? Se siamo convinti che nella nostra identità confluiscano tanto il corpo quanto il cervello, tanto le funzioni psichiche quanto quelle biologiche, come possiamo qualificare come morte la cessazione di una sola di queste? Si può essere contemporaneamente morti, perché il cervello non funziona più, e vivi, perché il corpo respira e il cuore batte, sia pure, magari, con l’aiuto di macchine? Una bella aporia.
Aporie, paralogismi, certezze traballanti: è inevitabile, in un dibattito nel quale i pro e i contro si alternano, e che configura una situazione tragica nel senso più proprio, quella in cui due posizioni ragionevolmente sostenibili si confrontano senza possibilità di arrivare a una conclusione valida in assoluto. Ma forse il deus ex machina capace di mettere tutti d’accordo c’è, anche se bisogna liberarlo dalle resistenze, queste sì oscurantiste, che gli si oppongono: è la ricerca sulle cellule staminali, che potrebbe rendere disponibili gli organi di ricambio senza incorrere in dilemmi dilanianti.