lunedì 27 giugno 2016

La Stampa 27.6.16
I labour voltano le spalle a Corbyn
Si dimettono 11 ministri ombra
È accusato di non aver convinto l’elettorato a restare nella Ue
Johnson: siamo una grande nazione, resteremo nel mercato unico
di A. Sim.

Jeremy Corbyn lascia la sua casa scuro in volto, stringe la mano solo a due poliziotti. Poi s’infila in macchina ignorando le domande dei cronisti. Sono poco passate le 9, a Islington, dove abita, la notte deve essere stata agitata. Il leader laburista è andato a dormire dopo aver licenziato con una telefonata Hilary Benn, ministro degli Esteri ombra del suo governo. Una mossa preventiva dopo che era spuntata una congiura, orchestrata da molti e di cui Benn era l’ariete più nobile e solido, per disarcionare il boss del Partito accusato di non essere riuscito a convincere il popolo laburista che dentro l’Europa il Regno Unito sta meglio. È tarda notte quando un alto esponente del Partito ci invia un sms e spiega che «è tutto uno show, martedì ci sarà un voto ma Jeremy è in sella». O mente o non sa cosa sarebbe accaduto all’indomani. Domenica mattina Benn va in Tv, ribadisce che Corbyn è «una brava persona ma non è un leader». A suo parere non può guidare il Partito, e nemmeno il Paese. Vincere elezioni con questo esponente dell’Old Labour sembra ipotesi impossibile secondo esperti e rivali interni. E siccome il voto anticipato sembra un’opzione plausibile ogni giorno di più i laburisti vorrebbero presentarsi con qualcuno più gradito alla nomenclatura.
Il piano del dimissionato Benn va avanti. In tarda serata sono 11 (su 30) i ministri ombra che hanno abbandonato la nave.
Tom Watson, vice segretario, rientra precipitosamente dal festival musicale di Glastonbury. Fa il giro del Web la foto che lo ritrae in pantaloncini, maglietta e stivali seduto su una panchina in attesa del treno. Watson parlerà solo in serata per prendere le distanze da Corbyn annunciando che lui non pensa a sostituirlo. E che oggi i due si incontreranno.
Ci sono altri candidati, ma la partita fra i laburisti è solo all’inizio. Oggi alle 18 Corbyn parlerà a Westminster dove sarà presentata la mozione di sfiducia presentata da due deputati. Deciderà il presidente del partito se metterla ai voti.
Fuori intanto manifesteranno sindacati e giovani riuniti in Momentum, movimento pro Corbyn. Il leader che si proclama socialista è freddino sull’Europa, è pacifista e si è messo di traverso ogni volta Londra ha sollevato la questione di un’azione militare in Siria (sostenuta invece da Benn che sul tema tenne qualche mese fa un discorso straordinario a Westminster) e ha una base solida che lo sorregge. Il capo del sindacato Unite ha lanciato anatemi contro i dissidenti. In 175mila hanno firmato una petizione a sostegno del leader barcollante ed è la stessa direzione del partito a far uscire il comunicato. Così Corbyn è convinto di poter restare in sella. «Se mi cacciano, mi ricandido» aveva detto sabato. Ian McNicol, capo della commissione elettorale laburista, per sicurezza ieri ha detto che «non metterà il nome di Jeremy sulle schede se fosse cacciato dalla leadership». La battaglia è senza esclusione di colpi, il mondo laburista è spaccato (quasi più del Regno Unito se possibile).
Al di là del Tamigi il copione sembra simile, i protagonisti diversi. E c’è una variabile non indifferente in più. I conservatori sono ancora al governo, tocca a loro relazionarsi con Bruxelles (e decidere). Cameron fa sapere che non invocherà l’articolo 50 domani incontrando gli altri leader Ue. Ma era noto che non avrebbe fatto un favore al suo successore. Sia Boris Johnson che Theresa May, ministro dell’Interno, stanno sondando i parlamentari per vedere quanto sostegno hanno nella corsa alla leadership. Johnson ha incassato quello di Michael Gove, presidente e cervello del fronte Leave. La May avrebbe quello di Cameron che però, dicono fonti qualificate, non vuole interferire nella corsa alla leadership anche se non gli sarebbe sgradito fare lo sgambetto a Johnson. L’ex sindaco di Londra, dopo due giorni di silenzio, ha fatto sentire la sua voce con un editorale sul Telegraph nel quale tende la mano al fronte del «Remain», esalta la forza economica del Regno Unito («resteremo nel mercato unico») e dice che «chi ha votato per lasciare la Ue ha fatto una scelta giusta». Il tempo passa, sembra che a ogni minuto il voto del referendum (solo consultivo vale la pena ricordarlo) si annacqui. Così Ian Duncan Smith, falco anti-Ue e fra i potenti Tory, entra in scena. «Il governo deve guidarlo un pro-Brexit». Paul Nuttall, Ukip, conferma che non ci sono alternative e piazza Gove a Downing Street. I pro-Brexit hanno fretta. Il ministro degli Esteri Phil Hammond, moderato, li inchioda accusandoli non solo di aver tradito Cameron, ma di aver fatto promesse in campagna elettorale che non possono mantenere. La più clamorosa è quella dei soldi risparmiati in contributi alla Ue che dovrebbero andare al servizio sanitario. Ian Duncan Smith fa lo struzzo: «Mai detto una cosa del genere». Non è l’ultima frenata.