La Stampa 1.6.16
No al velo se viola la laicità
di Marco Zatterin
Ogni libertà, sia essa religiosa o personale, può avere un limite. Anche quella di indossare il velo sul luogo di lavoro, a patto che la decisione sia ispirata da una regola aziendale neutrale nei confronti della fede e delle convinzioni. L’avvocato generale della Corte di giustizia Ue, Juliane Kokott, afferma il principio nelle conclusioni presentate a proposito di causa intentata da una receptionist musulmana, Samir Achbita, contro il suo datore di lavoro, la G4S Secure Solutions, azienda belga del settore Sicurezza. La donna ha deciso di ricorrere alle vie legali quando, dopo tre anni di assunzione, ha chiesto di poter indossare il velo islamico al lavoro ed è stata licenziata, in quanto presso la G4S è vietato portare segni religiosi. Il magistrato le dà ora torto e sostiene che «ove il divieto si basi su una regola aziendale generale, secondo cui sono vietati segni politici, filosofici e religiosi visibili sul luogo di lavoro», esso «può essere giustificato al fine di realizzare la legittima politica di neutralità religiosa e ideologica perseguita dal datore di lavoro». Sebbene il parere dell’avvocato generale che afferma la mancanza di una discriminazione diretta non sia vincolante, capita solo raramente che la Corte di Lussemburgo ne inverta gli orientamenti. In tal caso, sarebbe un pronunciamento destinato a generare discussioni, oltre che a fare giurisprudenza.