La Stampa 15.6.16
Il giudice in ritardo non scrive la sentenza
I mafiosi tornano liberi
La Calabria in un baratro giudiziario, ma la politica tace
di Giuseppe Salvaggiulo
Nel
silenzio della politica e delle istituzioni (anche togate), dei
professionisti e dei dilettanti dell’antimafia, la Calabria sprofonda in
un baratro giudiziario. Solo negli ultimi giorni sono scivolati
inosservati, come fossero normali, alcuni casi clamorosi. La
scarcerazione di alcuni ’ndranghetisti condannati in primo grado e in
appello, ma salvati da un giudice che a 11 mesi dalla pronuncia della
sentenza non ha ancora depositato le motivazioni; il ritardo di cinque
anni con cui ricomincia un altro processo per mafia; l’agonia del
processo ai caporali di Rosarno, scaturito sei anni e mezzo fa dalle
testimonianze dei migranti e non ancora arrivato nemmeno alla sentenza
di primo grado.
«Cosa mia»
La vicenda più grave riguarda il
processo «Cosa Mia», nato nel 2010 da un’indagine della procura di
Reggio Calabria, allora retta da Giuseppe Pignatone oggi procuratore a
Roma, sulle famiglie della piana di Gioia Tauro, protagoniste di una
sanguinosa guerra di mafia negli Anni 80-90, con 52 omicidi e altri 34
tentati. L’inchiesta aveva svelato il controllo delle cosche sui lavori
dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, con una tangente del 3% imposta
alle imprese sotto la voce «tassa ambientale» o «costo sicurezza».
Il
processo si è svolto con relativa celerità, considerando l’ampiezza
della materia da trattare, il numero di imputati e alcune rilevanti
difficoltà logistiche. Basti pensare che la polizia penitenziaria,
intimorita dalla caratura degli imputati, si rifiutava di trasportarli
nell’aula del processo. Per garantire lo svolgimento del processo, il
ministero fu costretto a mobilitare i reparti speciali, usati in genere
solo per sedare le rivolte nelle carceri.
Nel 2013 la corte
d’assise commina 42 condanne per complessivi trecento anni di carcere,
con una sentenza monumentale di 3200 pagine. Impianto sostanzialmente
confermato nella sentenza d’appello, pronunciata a fine luglio dell’anno
scorso.
A questo punto, non resta che il passaggio in Cassazione,
il più celere. Dato che la durata massima della custodia cautelare è di
sei anni e i boss furono arrestati nel giugno 2010, il calcolo è
semplice. La corte d’appello avrebbe dovuto depositare le motivazioni
entro 90 giorni (quindi entro fine ottobre 2015), poi gli avvocati
avrebbero avuto 45 giorni per presentare il ricorso in Cassazione. Ai
supremi giudici sarebbero rimasti sei mesi, fino alla scadenza del
termine della carcerazione preventiva, per chiudere il processo con la
sentenza definitiva. Un tempo più che sufficiente: in Cassazione è
prassi anticipare i processi per i quali sta maturando la prescrizione
(fu così per il caso Berlusconi, frode fiscale, nell’agosto 2013) o
stanno per scadere i termini di carcerazione degli imputati.
Liberi tutti
Invece
in questo caso i termini sono scaduti la scorsa settimana senza che la
Cassazione abbia nemmeno ricevuto le carte del processo, ancora ferme
nella corte d’assise di Reggio Calabria perché il giudice Stefania Di
Rienzo non ha ancora depositato le motivazioni della sentenza. Scaduto
il primo termine di 90 giorni, aveva chiesto una proroga: altri tre
mesi. Spirati invano. Di mesi ne sono trascorsi undici e delle
motivazioni non c’è traccia.
E così tre imputati, a dispetto della
doppia condanna per associazione mafiosa, nei giorni scorsi sono usciti
dal carcere. Altri dieci erano tornati liberi precedentemente, sempre
per scadenza dei termini della custodia cautelare. Il danno processuale è
enorme, quello sociale maggiore. Il ritorno alla libertà degli
’ndranghetisti ne rafforza il potere e scoraggia chiunque (sia dentro
che fuori dal sodalizio criminale) dalla collaborazione con la
giustizia.
Non è un caso isolato. In questi giorni si celebra a
Catanzaro l’appello del processo Revenge, con sette imputati di mafia.
Peccato che sarebbe dovuto partire nel 2011, ma sono stati necessari
cinque anni per formare un collegio di giudici. E sei anni non sono
bastati ad arrivare a sentenza nel processo ai caporali di Rosarno.
Il panorama
Fotografie
di una resa giudiziaria nella regione con il record di Comuni
commissariati per infiltrazioni mafiose e in cui, recita l’ultima
relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia), la ’ndrangheta
opera un «atavico, asfissiante strangolamento del territorio» e
rappresenta «un pesante fattore frenante per lo sviluppo economico e
sociale» grazie alla capacità di «fare sistema» attraendo «nella propria
sfera di influenza soggetti legati al mondo dell’imprenditoria, della
politica, dell’economia e delle istituzioni».
Non ce n’è abbastanza perché Csm e commissione antimafia se ne occupino?
(Ha collaborato Gaetano Mazzuca)