Il Sole 14.6.16
le divisioni dell’unione
La fuga inglese e l’ansia dell’Europa che non c’è
di Adriana Cerretelli
«Nessun
paese da solo può guidare l’Europa, soprattutto non può farlo la
Germania»: con la solita ruvida franchezza Wolfgang Schauble affonda il
dito nelle piaghe del crescente disorientamento europeo alla vigilia del
referendum su Brexit, lanciando agli inglesi un accorato appello a
restare.
Mancano ormai 10 giorni al verdetto popolare sul
possibile divorzio del secolo: se si realizzasse, potrebbe cambiare il
corso della storia europea, forse ancor più della caduta del Muro di
Berlino e della fine dell'ordine di Yalta.
La sterlina continua a
scivolare, le Borse cedono terreno dovunque, perché dovunque si teme un
nuovo shock globale otto anni dopo il fallimento di Lehman Brothers,
un’iniezione di instabilità generale nel mezzo di una congiuntura
economica fragile e già carica di troppe incertezze.
Non è ancora
detta l'ultima parola ma i fautori dello strappo sembrano passati in
testa. La controffensiva di chi si oppone è in corso ma, nell'attesa,
l’Europa è in grande fibrillazione, preda di una rara crisi di ansia
collettiva. A ragione.
L’uscita della Gran Bretagna la priverebbe
della sua seconda economia, della sua prima piazza finanziaria,
dell’unica potenza militare insieme alla Francia, di una democrazia
antica e inviolata. Di equilibrio, pragmatismo culturale e libertà di
pensiero, tre doti che visibilmente le mancano e in parte spiegano la
crisi di identità in cui si dibatte. La diserzione di uno dei tre
maggiori azionisti toglierebbe poi credibilità a una spa già infragilita
da troppe divisioni interne.
Come si è fatta sorprendere in
questi anni dall’emergenza greca e dintorni, fino a trascinare l’euro
sull’orlo dell’abisso, così ora l’Unione si ritrova psicologicamente
impreparata ad affrontare un evento che continua a suscitarle
incredulità. In entrambi i casi i Trattati Ue hanno fornito un supporto
sì ma limitato, perché quasi mai la realtà è docile e ubbidiente alle
briglie che le imporrebbe l'immaginazione dei giuristi.
Anche se
ora sta correndo ai ripari, delineando tutti i possibili scenari di
un’eventuale uscita controllata di Londra per evitare tutte le possibili
fonti di panico sui mercati, difficilmente il divorzio, se ci sarà,
potrà evitare di trasformarsi in un cataclisma europeo: per
l’inevitabile effetto imitazione che si porterà dietro ma anche per la
lunghezza dei negoziati necessari per portarlo a termine. E non solo.
La
Groenlandia, unico precedente in capo al mondo, ci mise quasi tre anni
per concludere la sua secessione ma doveva di fatto trattare solo sul
settore della pesca. Nel caso di Brexit ce ne vorranno almeno sette di
anni, prevede Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, tra i due
previsti dal Trattato per concordare l’uscita e gli altri cinque
realisticamente necessari per trovare l’accordo a 27 su un nuovo
rapporto con Londra, tutto da definire e tutto da ratificare sempre a 27
e sempre che non si verifichino incidenti strada facendo. Senza
dimenticare che l’Europa non potrà essere di manica larga nelle
concessioni, per non incoraggiare pericolosi effetti domino. Anche
ammesso che Brexit restasse un caso isolato (ma è improbabile) e che i
tempi biblici del divorzio non impedissero una parallela ripartenza del
progetto europeo (difficile perché in democrazia non si decide senza
consenso popolare, oggi in dissolvenza), che tipo di Europa costruire
senza gli inglesi? Sulla carta l’impresa non sarebbe affatto
impossibile. Ma, anche suo malgrado, l’egemonia culturale della Germania
e del suo modello diventerebbe ineludibile ma non necessariamente
accettata da tutti senza reagire. Schäuble ne è tanto convinto da
affermare: «Gli altri invocano sempre la leadership tedesca salvo
criticarla appena la esercitiamo». Per questo il ministro delle Finanze
di Angela Merkel aggiunge: «Abbiamo bisogno della Francia e di una
Polonia più forte e impegnata. L’Europa però è molto più equilibrata con
la Gran Bretagna che senza. Più gli inglesi sono coinvolti e meglio
funziona l’Europa». La superpotenza europea riluttante chiama Londra con
sincera insistenza perché sa che oggi né a Parigi né a Varsavia può
trovare spalle altrettanto solide e volonterose per rifondare un’Unione
allo sbando. Ci si può chiedere però se oggi il paese di David Cameron
sia lo stesso cui pensa Schauble e non invece l’ennesimo esponente di un
club di sbandati. La risposta forse arriverà dall’esito del referendum.